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Una tradizione che attraversa il mare (Parte 2)

Una tradizione che attraversa il mare (Parte 2)

Il karate del maestro Funakoshi è un’arte marziale che si è aperta al mondo, uscendo coraggiosamente dai confini del Giappone per mostrarsi agli altri e, allo stesso tempo, per affermarsi come modello, filosofia, sistema di allenamento.

Gli elementi fondamentali della moderna dottrina estetica giapponese sono quattro. Essi interagiscono tra loro nelle arti, nelle pratiche marziali e nelle espressioni culturali giapponesi.

• Kata, forma
Lo studioso Shirakawa Shizuka ha spiegato che il sinogramma kata – modello, stampo, forma, modo di fare – definisce in origine lo stampo utilizzato per modellare oggetti di artigianato o in cui si cola un metallo fuso. Questo porta con sé un carattere positivo di trasmissione: travaso, acquisizione di una forma, ma anche il rischio di una ripetizione pedissequa.
Il kata come strumento di trasferimento dei codici di comportamento e delle tradizioni si è affermato in Giappone in epoca Edo, tra il XVII e XIX secolo, ed è tuttora un elemento distintivo della cultura giapponese. Tuttavia, rispetto ai modelli rigidi dell’epoca Edo, il periodo Meiji accompagna i kata verso una revisione e una morbidezza nuove, necessarie per accogliere la modernità e per aprirsi verso l’esterno. In particolare, si struttura una dinamica basata sui concetti di shu – ha – ri, ovvero difendere, rompere, liberare. Questo significa accettare un modello, farlo proprio con infinite ripetizioni, poi allontanarsi dal legame di dipendenza dal maestro che lo ha insegnato, infine, liberarsi dal pensiero della forma, riuscendo a utilizzarla in modo naturale, inconscio, come risultato di una perfetta interiorizzazione.

Il periodo Meiji accompagna i kata verso una revisione e una morbidezza nuove

Sul tema del kata, è interessante è il pensiero di Minamoto Ryoen, vissuto tra fine Novecento e primi anni Duemila. Teorizzò il concetto di kata associandolo non solo all’idea di modello, ma anche all’idea di stile, yoshiki, che serve per rappresentare l’individualità contenuta nella messa in pratica del modello. A mio parare, nel mondo delle arti marziali, stiamo parlando della maestria, dell’apporto personale, frutto di esperienze e studio che ogni praticante esperto può tradurre in movimento.
Intendendo il kata non solo come forma, ma anche come stile, l’elemento di individualità fa irruzione nella pratica, la immette in una dialettica di stabilità e dinamismo che alimenta e al contempo rende possibile sia la trasmissione da un maestro a un allievo, sia la sua incorporazione ogni volta inedita nel corpo di chi la riceve e la vivifica” (Marcello Ghilardi, L’estetica giapponese moderna, 2016).

Bijutsu, bellezza
Che cos’è la bellezza? Bi to wa nan zo ya.
Per Cina e Giappone il concetto di bellezza nelle pratiche artistiche è praticamente assente. Il sinogramma cinese mei e quello giapponese bi, possono tradursi in “bello” nella lingua occidentale, ma il ricorso a questo termine nei trattati orientali sull’arte è molto raro. Piuttosto, l’apprezzamento estetico è espresso con termini come pin, “classificare, organizzare”, e weiwan, “assaporare, gustare”. Ancora una volta è sottolineato come la concezione occidentale di bellezza sia, per l’oriente, un aspetto del tutto diverso, strettamente collegato all’etica, al sistema corpo-mente che interagisce con gli elementi intorno, con la natura, con l’Altro.
In epoca Meiji gli studi filosofici e intellettuali si sono soffermati ampiamente sul concetto di bellezza, perché l’incontro con l’Occidente aveva palesato una diversità profonda sul concetto in quanto tale. 

Il Giappone, così come la Cina, accettarono parzialmente l’idea delle belle arti come le intendiamo noi e coniarono un termine nuovo bijutsu, che intende sottolineare come la bellezza non può e non deve mai essere fine a se stessa, ma è “modificazione e riconversione di un’energia, metamorfosi di un soffio vitale che traduce in nuove forme espressive il movimento sempre all’opera della natura” (Marcello Ghilardi, idem). Associare i termini bi/bellezza e jutsu/tecnica, è servito per rimarcare l’idea dell’attività creatrice e creativa, di un’abilità tecnico-pratica.
Applicando questo concetto al karate, possiamo dire che il karate diventa bello se funziona. Del resto, questo è un concetto che il maestro Hiroshi Shirai ha espresso tante volte, magari con parole diverse o passando per altre vie, ma il senso era proprio questo: praticare con il massimo impegno, ricercare la verità nella tecnica, non essere approssimativi, unire lo studio meticoloso dei movimenti alla loro funzionalità marziale. Coltivare la bellezza, ma come entità piena di significato.

• Geido, via dell’arte
Geido può tradursi come “via dell’arte”, inerente alla sfera della pratica artistica, come idea di itinerario fisico, spirituale e di indagine etica. Gei, nello specifico, è un termine giapponese che etimologicamente rimanda all’atto del coltivare e del piantare. In questo senso, geido è coltivazione di sé, sviluppo della persona. In altre parole, è cultura. L’arte diventa un mezzo per comprendere e manifestare l’ordine intrinseco dell’universo. Questo concetto influenza anche la filosofia delle pratiche marziali, dove l’abilità tecnica si intreccia con la ricerca di un’armonia interiore ed esteriore, in ottica di una sincronizzazione tra mente, corpo e spirito.
Al praticante di karate è del resto noto il concetto di shin – ki – tai, come regola fondante dell’arte marziale, che non è solo tecnica, non è solo esteriorità, ma è connubio di forze interne ed esterne alla persona, un misto di meditazione, fuoco ardente e razionale strategia.
Lo scopo ultimo del Karate non risiede nella vittoria o nella sconfitta, ma nella perfezione del carattere dei suoi praticanti” Gichin Funakoshi

Applicando questo concetto al karate, possiamo dire che il karate diventa bello se funziona.

Il karate del maestro Funakoshi è un’arte marziale che si è aperta al mondo, uscendo coraggiosamente dai confini del Giappone per mostrarsi agli altri e, allo stesso tempo, per affermarsi come modello, filosofia, sistema di allenamento. Questo karate ha superato le barriere linguistiche, geografiche, concettuali, diventando strumento per tramandare un sapere che non è solo tecnica, ma è storia di un popolo. Ed è proprio il concetto di Do, Via, che ha permesso alla cultura marziale giapponese di prosperare, allacciandosi al bisogno interiore dell’uomo di sentirsi in connessione con un Tutto e con il Niente, in una tensione continua tra crescita e fine, in un gioco infinito di prospettive.

• Iki, grazia
L’elaborazione del concetto di Iki si deve principalmente allo studioso giapponese Kuki Shuzo. Sebbene il significato originario e tradizionale di Iki sia grazia, eleganza, nei primi decenni del Novecento Kuki si interessò a molteplici parole che, se pure scritte in modo diverso, si pronunciano comunque come la parola iki.
Respiro, vivere, temperamento, disposizione interiore, quintessenza della seduzione.
Il lavoro di Kuki aveva l’obiettivo di presentare il termine Iki come fenomeno di coscienza, derivante dalla storia e dalla sensibilità nipponica in maniera specifica, più che come esperienza oggettiva, facilmente tramandabile.
La sua analisi ha individuato tre elementi essenziali afferenti a Iki.

  • • Capacità seduttiva, di cui la geisha è simbolo.
  • • Energia spirituale, rappresentata dal guerriero coraggioso.
  • • Capacità di rinuncia, come affrancamento dell’anima dalla realtà.
    L’Iki è qualcosa di nostro. […] In che modo riusciremo allora a garantire la possibilità dell’anamnesi di questo significato? Soltanto non seppellendo nell’oblio la nostra cultura spirituale. Soltanto perseverando nell’eros ardente che deve unirci alla nostra cultura dell’Irrealtà idealista. L’iki ha un indissolubile legame interiore con l’ideale etico del Bushido e con l’irrealtà del Buddhismo. È seduzione che ad opera del destino ha raggiunto la rinuncia e vive nella libertà dell’energia spirituale” [Kuki Shuzo, La struttura dell’iki (『いき』の構造, “Iki” no kōzō), 1930].

Di fronte a questo stralcio del saggio di Kuki, comprendo il profondo divario sensibile, emozionale, storico, linguistico, che impedirà a un occidentale come me di entrare in perfetta sintonia con una cultura che tanto ammiro e stimo. È qui che si palesa, a mio avviso, lo sgradevole rischio di inquadrare la cultura giapponese – e le arti marziali che pratichiamo – in una cornice inadatta, in uno stereotipo che non la descrive, in una convinzione fantasiosa o priva di fondamento. Quanto più leggo, quando più cerco di capire, di conoscere lo spirito giapponese che pervade l’arte marziale che pratico da ventiquattro anni, tanto più mi accorgo di non sapere.
Ma i maestri giapponesi che per primi hanno divulgato il loro sapere al mondo, uscendo dai confini per farsi conoscere e per conoscere, ci insegnano che confrontarsi è una cosa buona, giusta ed essenziale. Altrimenti, non avrebbero attraversato il mare e sarebbero rimasti un’isola.

L’arte diventa un mezzo per comprendere e manifestare l’ordine intrinseco dell’universo.

Ed è con questo concetto che voglio chiudere la disamina, per quanto parziale essa sia, usando ancora una volta le parole del professor Ghilardi, che con i suoi studi fornisce una visione esemplare che ci parla di diversità e inclusione, mostrandoci il Giappone e le arti giapponesi come strumenti vivi, fonti creatrici, che allo stesso tempo hanno la forza di conservare una tradizione secolare e unica.
Ogni identità si nutre di diversità, di scarti differenziali, di divaricazioni, e si scopre attraverso lunghe uscite da sé e successivi ritorni, alla luce dei quali soltanto ci si può osservare davvero in modo inedito. Queste deviazioni non sono necessariamente lenti deformanti che distorcono l’immagine. Talvolta si offrono proprio come ulteriori possibilità di riconoscimento e di scoperta di sé, senza le quali la tradizione del pensiero perderebbe ogni linfa e si avvilirebbe nei propri stessi stereotipi” (Marcello Ghilardi, L’estetica giapponese moderna, 2016).

Parte 1

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