Dilaga sempre più il mito della cintura nera, ma qual è il suo significato?
A più di sessant’anni dalla diffusione di massa del karate nel mondo occidentale, resiste e, se possibile, dilaga sempre più il mito della cintura nera. A leggere certi articoli e certi post enfatici e un po’ deliranti, sembra che tagliare quel traguardo sia impresa sovrumana. Chi ci riesce lo farebbe a costo di allenamenti estenuanti e di rinunce ascetiche che gli permettono di superare la debolezza della carne e di ascendere a un Walhalla di semidei.
Tutto questo francamente fa un po’ ridere, a meno che si ammetta (per limitare il ragionamento all’Italia) che il nostro sia un paese di superuomini misconosciuti, cosa contraddetta da moltissimi segnali in senso opposto.
Qual è dunque, superato il primo ventennio del 2000, il significato della cintura nera?
All’inizio le cose erano chiare, a partire dalla lapidaria e un po’ inquietante definizione fornita dal Maestro Shirai poco dopo l’inizio della sua lunga avventura italiana, purtroppo conclusa poche settimane or sono:
“Una cintura nera è uno che può buttare giù un aggressore con un pugno o con un calcio”.
“Una cintura nera è uno che può buttare giù un aggressore con un pugno o con un calcio”.
Agli esordi del karate l’enfasi era dunque sull’efficacia e sul concetto tradizionale di ikken hissatsu (拳必殺) cioè annientare con un solo colpo. Quante cinture nere di karate, tradizionale e/o sportivo, nel 2025 soddisferebbero questo draconiano requisito? La risposta è facile: quasi nessuno. Ma negli anni ’60 donne e bambini non facevano karate e negli esami per cintura nera la selezione era spietata, secondo i criteri della Japan Karate Association.
Negli anni ’70 si comprese che, per favorire la diffusione di massa del karate, bisognava cambiare metodi di allenamento e criteri d’esame: un cambiamento per molti aspetti simile a quello verificatosi nel karate di Okinawa nel momento in cui il maestro Itosu propose di introdurre la disciplina nelle scuole medie. Bisognava eliminare o almeno moderarne la pericolosità, ad esempio togliendo dai kata la maggior parte delle tecniche a mano aperta, e diminuire il peso del kumite rispetto a quello del kata e dei fondamentali.
Negli anni ’70 si aprì perciò il karate alle donne e ai bambini e venne sancito un nuovo criterio per gli esami di cintura nera: venivano promossi i candidati che dimostravano una buona tecnica e/o una decisione superiore alla mediocrità. Progressivamente, l’aspetto tecnico prevalse: due terzi del programma d’esame riguardavano la correttezza esecutiva dei fondamentali e dei kata, mentre al kumite libero venivano riservati pochi secondi o pochi minuti, nei quali l’accento era posto più sul controllo che sulla “vittoria” contro l’avversario, che di solito era un compagno di palestra. Chi “toccava” era bocciato!
Con l’istituzione della “cintura nera primavera” per bambini e ragazzini di età inferiore ai 15 anni, la frittata era completata. Da allora fino a oggi, se è possibile, la cintura nera è diventata ancora più light.
L’enfasi era dunque sull’efficacia e sul concetto tradizionale di ikken hissatsu (拳必殺) cioè annientare con un solo colpo.
Con il moltiplicarsi delle pseudofederazioni e con l’ingerenza degli enti di promozione, oggigiorno il superamento dell’esame di primo Dan non ha alcun significato oggettivo ed è impossibile confrontare atleti che hanno ottenuto tale grado con commissioni e programmi diversi. È diventato vero il luogo comune ripetuto spesso da insegnanti che si credono originali e spiritosi: “La cintura serve solo per tenere su i pantaloni”. Ma allora, perché organizzare solenni sessioni di esami? In realtà tutti sanno che ha una funzione puramente ornamentale, i pantaloni del gi sono sorretti dagli appositi laccetti.
Anche se manca ormai un criterio oggettivo, per fortuna ciascuno di noi, se avesse sufficiente onestà e senso critico, potrebbe dire quanto valga il proprio kuro obi e i successivi avanzamenti di Dan, mentre è un po’ sconsolante che invece prevalgano l’autoesaltazione e l’esibizione di cinture multicolor: non è proprio alla consapevolezza di sé che mira il karate-do?