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Mokusō, attimo fuggente? (Parte 4)

Mokusō, attimo fuggente? (Parte 4)

La meditazione non si può insegnare, si possono dare dei suggerimenti, delle linee guida, e l’Occidente ha sempre guardato questa pratica dell’Estremo Oriente con secolare strabismo.

La saggezza dell’Oriente è qualcosa da cui possiamo imparare, ma che dovremmo stare attenti a non imitare […] Non possiamo staccarci dalle nostre radici e dalle nostre tradizioni, che sono differenti da quelle dei popoli asiatici, perché abbiamo una differente funzione o dharma da adempiere nel mondo” ci avverte Alan W. Watts (Il Significato della Felicità, Ubaldini Editore, Roma, 1975, p. 77).
La meditazione non si può insegnare, si possono dare dei suggerimenti, dare delle linee guida e l’Occidente ha sempre purtroppo guardato questa pratica dell’Estremo Oriente con secolare strabismo, distorcendola o persino censurandola, ora anche trattandola come merce in vendita, addirittura si può oggi scaricare con Applicazioni sul telefonino.

Come sostiene C.G.Jung: “Meditano per la gioia della meditazione”.

Carl Gustav Jung già metteva in guardia tutti coloro che si affidano alla meditazione yogica senza un lavoro preliminare (il rischio è un naufragio psichico) e riprendo le sue parole: “Illuminando l’inconscio si incappa alla prima sfera del caotico inconscio personale, in cui si trova tutto ciò che volentieri si dimentica e che a ogni modo non si vorrebbe confessare né a sé né ad altri e di cui in genere non ci si vorrebbe rendere conto […] Io sono contrario all’accettazione acritica delle pratiche Yoga da parte degli europei, perché so troppo bene che essi sperano di scansare con quelle il loro angolo buio: impresa completamente insensata e senza valore.“(“Psicologia della meditazione” in La Saggezza Orientale, Bollati Boringhieri, Torino, 1983, p. 141).

L’Estremo Oriente, dall’India al Giappone, possiede un’intuizione del Sé e vede l’Io e la coscienza soltanto come parti più o meno inessenziali di esso, come sostiene C.G.Jung: “Meditano per la gioia della meditazione” (cit. Alan W. Watts, Il TAO La via dell’acqua che scorre, Ubaldini Editore, Roma, 1977, p. 84).
Anche la Cina, che meriterebbe un discorso a parte, presenta caratteristiche distinte e autoctone già al sorgere della sua civiltà che riassumo qui in forma riduttiva con l’assioma di Gilbert Keith Chesterton: “È una società che ha preferito credere nell’intelletto” (L’Uomo Eterno, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2023, p. 154), indirizzando la dottrina religiosa e filosofica in forma pragmatica, seguendo un ordine di controllo politico (una sorta di regalismo post illuminista) e collocando rigide regole all’individuo.

L’illustre studioso, Claude Lévi-Strauss, scrive: Il pensiero giapponese si contrappone a quello dei filosofi occidentali per un diverso atteggiamento nei confronti della nozione di soggetto… ed è lontano sia dalle filosofie orientali che dalle occidentali. A differenza delle prime, esso non annichilisce il soggetto, rifiuta di farne il punto di partenza obbligato di ogni riflessione filosofica, di ogni tentativo di ricostruzione del mondo da parte del pensiero. È stato addirittura possibile affermare che in una lingua come il giapponese, che rifiuta l’uso del pronome personale, il ‘Penso, dunque sono’ di Descartes sarebbe a rigore, intraducibile.
Il pensiero giapponese, invece, di fare del soggetto una causa, come è nostra abitudine, vi vede piuttosto un risultato. La filosofia occidentale del soggetto è centrifuga; quella del Giappone, centripeta, mette il soggetto alla conclusione del percorso” (in “Se il mondo è alla rovescia”, La Repubblica, 6.08.1989).
Questo è secondo me il punto di confine o distanza (forse di rottura?) dalla nostra visione occidentale: egocentrica ed eurocentrica che si auto acclama Vecchio Continente, dove pone sia la dottrina religiosa, tante sono le (ir)responsabilità nei secoli dei secoli, sia le dissertazioni ed elucubrazioni filosofiche al centro della questione umana nel suo insieme… una foggiatura che sfiora l’idolatria della persona, il vitello d’oro, il culto nichilista, la frustrazione narcisista che poi viene a seguire!

“La filosofia occidentale del soggetto è centrifuga; quella del Giappone, centripeta, mette il soggetto alla conclusione del percorso”. (Lévi-Strauss)

La prima, indubbiamente, inizia dall’ortodossia del monoteismo e di conseguenza il manicheismo che si genera, collocando diktat e antinomia al pensiero libero (già qui non abbiamo l’armonia degli opposti per esempio come nel taoismo). Si è voluto travisare, forse anche volontariamente, quello che ci viene detto dal Vangelo (dove non c’è, chiesa ma vita di comunità, non c’è dottrina, ma regola esistenziale), escludendo l’Uomo da qualsiasi forma d’espressione mistica e meditativa: il ponte da instaurare della trascendenza spirituale tra Terra e Cielo. Abbiamo assistito al taglio delle ali e la meditazione assoggettata e posta sotto chiave, imponendo la loro logica dei fatti per il controllo (e la manipolazione) delle menti. Infatti, si parla spesso di “orazione di meditazione” che è un’altra forma di pratica ascetica da quella descritta, anche se in modo sommario, come excursus nella seconda e terza parte di questo articolo.

Anche gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola sono una controparte cristiana soprattutto delle meditazioni indiane (ma qui c’è la scomparsa di ogni pensiero, anzi l’abolizione di qualsivoglia iniziativa o fantasia che siano dogmaticamente inaccettabili); un primo tentativo, comunque sia, della gestione dell’inconscio, dello stato emozionale, degli istinti-passioni-pulsioni, però con accenti anche di punizione coercitivi: “castigare la carne, infliggendole cioè dolore sensibile, che si provoca portando cilici o corde o fili di ferro sulle carni” (Esercizi Spirituali, Edizioni San Paolo, Milano, 2022, p. 85) che sono purtroppo solo da stigmatizzare, anche perché antitetico con san Paolo apostolo che scrive che il nostro corpo è il Tempio di Dio (1 Corinzi 3:16-17).
Scrive l’antropologo Alan Macfarlane: “Il Giappone non è come l’India, affollata di divinità. E neppure come l’Occidente, che ancora convive con gli spettri della religione monoteista… Vive in altre dimensioni e in una commistione di elementi che la nostra intelligenza non ci consente di cogliere. Il Giappone è una sintesi, che lascia all’uomo molte opzioni” (Enigmatico Giappone, Rizzoli, Milano, 2022, p. 260).

La seconda, inizia dal mito della caverna di Platone che tenta di spiegare la soggettività del nostro giudizio, poi chiamata più tardi dalla storia della filosofia “teoria cognitiva”. Rielaborata poi da Immanuel Kant in modo più astratta duemila anni dopo con la Critica della Ragion Pura dicendo che la cosa in sé (das Ding an sich) è un concetto limite puramente negativo e non garantisce affatto che qualcosa del genere esista (ovvero: dietro il mondo fenomenico c’è qualcosa su cui però non possiamo dire nulla). Mentre Nietzsche, forse anche dopo aver vissuto l’esperienza eremitica in eccesso, quasi si astiene sul tema “il lungo meditare crea quasi rimorsi di coscienza” (La Gaia scienza, libro IV, Adelphi, Milano, 2015, p. 221).

Ecco allora il divario, ricucendo il discorso iniziale, tra due modi di pensare/agire sia filosofico sia religioso: quello orientale studia la coscienza anzi la interroga, attiva la meditazione come un processo galvanico, interessata a sapere cosa succede anche dietro il sipario; mentre “noi” siamo completamente identificati con il proscenio, con il conscio, dedichiamo molto tempo alla passerella tra cotillon e paillette, tra cascate di coriandoli e morbidi peluche cercando consenso e riconoscimento. Gichin Funakoshi insegna tra l’altro:Visto che il karate-dō mira alla perfezione della mente come del corpo, espressioni che esaltano solo il valore fisico non dovrebbero mai essere usate insieme con esso” (Karate Dō – Il mio stile di Vita, Edizioni Mediterranee, Roma, 2014, pag. 116).
In aggiunta, per secoli abbiamo messo nel cassetto delegando a un’altra entità o istituzione i punti fondamentali di domanda, liquidandoli o insabbiandoli.
Abbiamo sostituito (o confuso) la meditazione con la preghiera, questo sempre con le dovute riserve per non cadere in una sintesi riduttiva che non vuole assolutamente marcare questa chiosa personale come modus operandi generale, condivisa o che coinvolga tutti.

Il problema (sempre se ci fosse) non è quanto sia distante il traguardo, ma il nostro impegno nel raggiungerlo.

Difatti, ci sono stati i Padri del Deserto, i mistici bizantini e cristiani del nord Africa e Medio Oriente, santa Teresa d’Avila in primis e san Francesco d’Assisi, per fare solo alcuni nomi.
Espressioni di puro coinvolgimento spirituale dell’uomo e contemplazione al Regno di Dio, a guisa di ponte tra Terra e Cielo, mettendo sempre in primo piano la povertà all’opulenza (cosa che purtroppo non è avvenuta), l’umiltà alla tracotanza e all’ingerenza (anche qui andiamo in asfissia).
Si invitava alla pratica anche autonoma della meditazione e della preghiera che non fosse vincolata né dipendente dalla cerchia e consorteria del ‘potere temporale e dalla talare’, come poi è successo in linea di massima, ma, al contrario, che si basasse o si dovesse basare solo come atto, manovra, operazione nel binomio Unità e Unione col Divino, in un cammino spirituale che potesse allargare gli orizzonti del pensiero, nella triade Fede-Speranza-Carità (leggi: fratellanza, equanimità e giustizia sociale).

Il primo vero scritto sulla meditazione in Occidente che merita qui d’esser menzionato è quello che sfrutta l’allegoria del Castello-Anima, introducendo anche i grandi archetipi che sottostanno alle origini dei simboli e all’origine del mondo (poi ampiamente ben analizzato e approfondito da Joseph Campbell, Le Figure del Mito, Red edizioni, 1991).
Santa Teresa d’Avila ci accompagna nelle sette dimore o stanze: La prima porta di entrata a questo castello è l’orazione e la meditazione” (Il Castello Interiore, Edizioni Paoline, Milano, 2021, p. 40) e ci avverte che ci vogliono: persistenza, volontà, raccoglimento e silenzio, umiltà, attenzione, “non stiamo abbastanza in guardia!” (Ibidem, p. 58). Umiltà per accedere all’esperienza soprannaturale, un “viaggio esposto a molti rischi che rendono ardua la meta (Ib., p. 75), ci spiega come raggiungere i diletti spirituali e si sofferma su bellezza e dignità della nostra anima.
Necessario dunque avere consapevolezza e conoscenza di sé, poi, a mio parere, la frase più bella e cristallina per la sua atemporalità: “Desidero avvertirvi che, per fare grandi progressi in questo cammino e salire alle dimore a cui aspiriamo, il nodo della questione non sta nel pensare molto, ma nell’amare molto; pertanto fate ciò che può incitarvi maggiormente ad amare” (Ib., p. 84).
Coloro che la praticano (la meditazione) dicono che l’anima rientra in se stessa e altre volte che sale sopra” (Ib. p. 93).

CONCLUSIONE
Abbiamo tutti, perciò, il dono e la dote di apprezzare e vivere il tesoro del Pensare & Amare, unendo almeno tre elementi: libertà, gratitudine e senso del meraviglioso (contemplazione).
Il quotidiano incantesimo della Vita, al quale non ci possiamo sottrarre in modo remissivo (l’inerzia che vincola l’anima coi lacci della negligenza, apatia e pigrizia, ossia il Tamas citato nel Bhagavad Gītā XIV:8, persino arrivando all’indolenza e alla sfacciataggine), ma farlo brillare, questo “incantesimo” come una sorta di rito catartico: una stella che vive di luce propria nella vera Esperienza ed Essenza del mondo che la circonda.
Il problema (sempre se ci fosse) non è quanto sia distante il traguardo, ma il nostro impegno nel raggiungerlo che poi è la morale di Confucio, che arriva a noi ancora in modo incontaminato malgrado il passaggio del tempo e l’oscurantismo (sordità e cecità) occidentale.
Questo è mokusō: giro di boa e trampolino di lancio!

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