Nel 1966 il primo concerto rock al Nippon Budokan, la “Sala delle Arti Marziali Giapponesi”.
La nostra storia inizia nel lontano 1959, cioè quando il Comitato Olimpico Internazionale assegnò al Giappone l’organizzazione della XVIII Olimpiade che si sarebbe svolta nel 1964. Tokyo vinse su Detroit, Bruxelles e Vienna e la nomina venne salutata dalla stampa giapponese come una sorta di “rivincita”, dopo che quelle del 1940 vennero dirottate a Helsinki a causa dello scoppio della guerra sino-giapponese.
In quel periodo il Giappone era una nazione che stava lentamente tornando alla normalità dopo la nefasta eredità lasciata dalla guerra, ma soprattutto dalle due bombe atomiche che distrussero le città di Hiroshima e Nagasaki.
Fino a quel momento nessun giapponese conosceva altro genere musicale che non fosse quella tradizionale.
L’occasione di ospitare i Giochi Olimpici era una vetrina perfetta per mettere in mostra l’orgoglio di un popolo oltre che le sue millenarie tradizioni; tra queste c’erano – e ci sono – le arti marziali che, per la prima volta, sarebbero entrate nel programma olimpico con il Judo (il Karate farà la sua apparizione nell’edizione 2020 poi posticipata al 2021 per via della pandemia da Covid).
Proprio per onorare al meglio lo spirito delle Arti Marziali e probabilmente anche il Bushido degli antichi guerrieri Samurai, il comitato organizzatore volle e ottenne di costruire un “tempio” che prese il nome di Nippon Budokan (trad. Sala delle Arti Marziali Giapponesi), poi semplificato in Budokan.
La costruzione iniziò nel 1961 sulla base di un progetto dell’architetto Mamoru Yamada. Sito al centro della città di Tokyo, il Budokan è una struttura composta da tre sale dove la più grande può accogliere qualcosa come 14.000 persone. Ovviamente, con la fine dell’Olimpiade, avrebbe mantenuto anche lo status di centro nevralgico delle arti marziali giapponesi dove svolgere le gare nazionali di Aikido, Judo, Kendo, Tiro con l’arco tradizionale e, ovviamente, Karate, la cui pratica si stava lentamente, ma inesorabilmente, espandendo in tutto il mondo.
Parallelamente al successo che stavano ottenendo le arti marziali in tutto il mondo, c’era anche un altro fenomeno in espansione: i Beatles. Il paragone vi sembrerà un po’ fuori luogo, ma vedrete che le due cose si avvicineranno fino a sfiorarsi, loro malgrado (questo va detto).
Alle ore 3:30 del mattino del 30 giugno del 1966, un aereo della Japan Air Lines con a bordo Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr, atterrò all’Aeroporto Haneda di Tokyo. I Beatles, reduci dal successo di Rubber Soul e freschi della registrazione dell’immenso Revolver, avevano in programma un tour asiatico e si sarebbero potuti vantare di essere la prima rock-band a suonare dal vivo in Giappone, cosa non da tutti non solo per i Beatles.
I Beatles non dovrebbero disonorare il tempio delle Arti Marziali”.
Ora, concedetemi una piccola divagazione per contestualizzare il fenomeno. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nell’arcipelago giapponese si insediarono diverse basi militari americane, dato che, ufficialmente, il trattato di pace firmato dall’Imperatore dopo l’armistizio prevedeva la dissoluzione dell’esercito giapponese che venne sostituito da un presidio americano. Questo per controllare sì i giapponesi, rei di aver attaccato gli americani a Pearl Harbour, ma principalmente per avere una “testa di ponte” a est, ad arginare un’eventuale espansione della Cina di Mao, ma soprattutto dell’Unione Sovietica. La base americana più famosa fu sicuramente quella di Kadena, sita a Okinawa, autentica portaerei naturale per l’avventura in Corea nel 1949 e successivamente in Vietnam. Di lì transitavano tutti i militari americani da e per il Giappone e che già negli anni ’50 iniziarono a commercializzare prodotti d’importazione, tra cui i dischi di rock ‘n roll.
Fino a quel momento nessun giapponese conosceva altro genere musicale che non fosse quella tradizionale, con tutte le sue deviazioni culturali e religiose. Ovviamente, l’impatto fu enorme e colse di sorpresa le autorità che videro il successo della musica rock come una violazione della tradizione nipponica. Questo fatto comportò un vero e proprio boicottaggio, con tanto di leggi ad hoc che ne impedivano la diffusione via radio e che durò proprio fino a che i Beatles non salirono sul palco del Budokan.
Fatto il preambolo torniamo ai fatti.
Usciti dall’aeroporto, i Beatles salirono su un pullman che raggiunse il Tokyo Hilton Hotel, sotto scorta della polizia precedentemente allertata dalle immagini che i servizi segreti giapponesi avevano captato dall’Europa. A spaventare non erano solo le orde di ragazzine urlanti, ma la forte presa di posizione del neonato Greater Japan Patriotic Party di Satoshi Akao che, nei giorni prima dell’evento, si prodigò di riempire Tokyo di manifesti recanti la scritta “Buttiamo fuori i Beatles dal Giappone” e “I Beatles non dovrebbero disonorare il tempio delle Arti Marziali”, millantando azioni di boicottaggio e non solo.
Per un attimo, a qualcuno balenò l’idea che i Beatles potessero tornarsene in Inghilterra, ma poi la cosa venne abilmente gestita da Brian Epstein fino a che un fatto raggelò il clima: durante la conferenza stampa, prima del concerto del 1° luglio, un giornalista chiese a McCartney cosa ne pensasse della “presunta violazione culturale” operata dal gruppo, salendo sul parquet del Budokan. Macca, che probabilmente non conosceva nulla di arti marziali se non quello che gli avevano solamente accennato, rispose che se un giapponese si fosse esibito nella sua “danza tradizionale” all’interno di Goodison Park (lo stadio dell’Everton a Liverpool) nessuno avrebbe avuto da ridire. A onore del nostro incauto McCartney va detto che successivamente ritrattò l’uscita infelice, dicendo che non aveva alcuna intenzione di mancare di rispetto a chiunque praticasse le arti marziali con dovizia e passione, ma la sua esternazione era più che altro vincolata proprio al valore simbolico che era stato attribuito alla struttura.
Ovviamente, potete immaginare quale scompiglio creò questa affermazione, aggravata dal fatto che Lennon, non certo meno pesante nei commenti in quel preciso momento storico, rincarò la dose affermando che “i vecchi avevano paura dei Beatles mentre i Beatles non avevano paura di loro”. In pratica due cilecche in pochi minuti, considerato che Arti Marziali e rispetto per gli anziani sono due fondamenti della società nipponica.
Nei tre giorni si registrarono 44.000 ingressi, una cosa inaudita per il Giappone.
Successivamente riuscirono a mitigare un po’ gli animi asserendo di poter tenere uno show dal vivo in qualsiasi posto, piuttosto di violare la sensibilità della popolazione, per poi finire dicendo che il Giappone stava pagando ancora il “dazio” della Guerra, allo stesso modo in cui stavano pagando i vietnamiti – il 1966 rappresenta l’anno dell’escalation del conflitto tra il Vietnam del Nord e quello del Sud appoggiato dagli americani –. Questo chetò un po’ gli animi, in aggiunta al fatto che Epstein dichiarò ufficialmente “inviolabile” l’area del parquet del Budokan, dove vennero invalidati tutti i biglietti precedentemente emessi.
Addormentate le polemiche, i Beatles suonarono per cinque show, sempre la stessa scaletta che iniziava con “Rock N Roll Music” e terminava con “I’m Down”, con Paul che, dopo aver guardato l’orologio, pronunciava senza troppa convinzione la parola sayonara.
Tutti gli spettacoli ebbero una durata complessiva di 30’ per esibizione, probabilmente meno di una qualsiasi altra manifestazione mai tenuta tra quelle mura. Nei tre giorni si registrarono 44.000 ingressi, una cosa inaudita per il Giappone, e grazie a quell’evento, verso la fine degli anni ’60, molti giovani giapponesi vinsero la paura e la censura dando vita a un movimento musicale eterogeneo, ma in costante consolidamento, che sfocerà nel movimento J-Rock degli anni ’70-’80 e nel movimento progressive.
Dopo i Beatles, al Budokan, si esibirono anche i Deep Purple, Bob Dylan, i Cheap Trick ed Eric Clapton e “tempio” divenne sempre più teatro di spettacoli musicali, senza mai dimenticare la tradizione marziale che, ovviamente, privilegiava gli eventi importanti. Nel 2004, James LaBrie, frontman e voce dei Dream Theater, prima del concerto di Tokyo fece addirittura un inchino, per poi dire al microfono che solo una band lungimirante come i Beatles avrebbe potuto imporsi ottenendo come risultato il fatto di non violare un luogo considerato sacro.
Come tutte le storie legate alla musica anche questa dei live al Nippon Budokan di Tokyo è contornata da una buona dose di leggende. Storie condite dal tempo e dalla memoria sbiadita di chi c’era e anche di chi non c’era, ma si arroga il diritto di dire. Storie a cui tutti vogliamo credere; come tutti vogliamo credere che quel luogo è davvero un tempio, come ha dimostrato la vittoria dell’oro olimpico del nostro Luigi Busà nel kumite -75kg, del bronzo di Viviana Bottaro nel kata, prima storica medaglia per l’Italia, ma anche dall’iconica e indimenticabile immagine di Ryo Kiyuna nel saluto al centro del tatami, appena dopo aver conquistato l’oro nel kata maschile.
Probabilmente, nessuno dei quattro Beatles sapeva davvero cosa fosse quel luogo per la tradizione e per la cultura giapponese. Loro volevano solo fare musica, erano nati per quello e, in quello, riuscivano dannatamente bene.