È con grande piacere che ho accettato di leggere e recensire il terzo libro del Maestro Enzo Montanari.
Chiunque abbia iniziato la pratica del karate negli anni ’60 o ’70 non può non conoscere Enzo Montanari, uno degli atleti più completi e, in seguito, uno degli istruttori più esperti formati dal maestro Shirai nei primi anni di permanenza nel nostro Paese. Al di là della sua fama, ho potuto approfondire la sua conoscenza in quanto è stato mio docente al Corso Istruttori della Fesika (sue le firme che attestano la mia frequenza al corso sulla celebre tessera nera) e ho poi insegnato sotto la sua supervisione al Dicamon di Milano.
In entrambe le occasioni mi è apparso come una persona calma, seria, equilibrata e conciliante, del tutto estranea a quegli atteggiamenti di arroganza o di esibizionismo che talvolta caratterizzano in senso negativo chi nel nostro mondo si crede “arrivato”. È perciò con grande piacere che ho accettato di leggere e recensire il terzo libro da lui scritto e pubblicato nel 2014 per le Edizioni Mediterranee, dopo Karate Shotokan e Karate sconosciuto, Il cammino sulla via del karate: Dal combattere per vincere al vincere senza combattere.
Uno degli atleti più completi e, in seguito, uno degli istruttori più esperti formati dal maestro Shirai.
Dichiaro senza imbarazzo di non aver capito tutto, ma di esser rimasto affascinato sia da quanto ho inteso, sia da quanto ho solo intuìto.
Inizio con l’osservare che il libro, formalmente diviso in due parti (Combattere per vincere e Vincere senza combattere) è in realtà composto da tre sezioni, due delle quali, a una prima lettura, hanno poco a che vedere con il karate in senso stretto, anche se è proprio con i suoi praticanti che l’opera dialoga spesso. Aggiungerei che le tre parti non si fondono intuitivamente tra loro e che il loro collante è l’intensa esperienza di vita dell’autore, il maestro Montanari che, partito dalla pratica di alto livello del karate Shotokan, alla ricerca dell’origine della forza esplosiva di alcuni maestri del passato, ha studiato a lungo lo stile cinese Zhan Zhuang e ora si propone di aprire nuovi orizzonti ai praticanti italiani, insegnando non solo un lavoro statico che parte dalla convinzione che “ogni movimento ha origine dai piedi, sale attraverso le gambe, viene guidato dal bacino e si manifesta nelle mani” (p. 19), ma anche e soprattutto un ambizioso percorso di crescita spirituale, per rappresentare il quale attinge a diverse fonti della spirituale orientale e del misticismo occidentale, da Plotino alla Kabbalah, dal buddhismo Zen alla sapienza Sufi e agli alchimisti rinascimentali.
PARTE PRIMA: lo Zhan Zhuang
La prima parte presenta in modo esaustivo lo Zhan Zhuang, parlando anche dei suoi effetti terapeutici, ottenuti grazie all’accresciuta capacità protettiva del sistema immunitario. Esso si pratica “mantenendo una posizione stabile e immobile che può essere assunta da coricati, da seduti o in piedi” (p. 31).
I suoi cinque principi base sono: la forma, l’intenzione, la forza, il respiro e lo spirito. Esistono 36 posizioni, ciascuna delle quali con “punti chiave” da rispettare per ottenere l’effetto desiderato.
Per “intenzione” s’intende l’attivazione dei muscoli a riposo.
Per “forza” s’intende la qualità della contrazione muscolare esercitata.
La respirazione è sempre quella diaframmatica.
Per “spirito” s’intende una volontà di ferro: “quando praticate, immaginate di avere di fronte un nemico formidabile” (p. 37).
I cinque principi si influenzano reciprocamente e solo coordinandoli l’effetto sarà ottimale.
Le 36 posizioni dello Zhan Zhuang assomigliano vagamente a quelle dello Yoga: quattro sono coricate, sei sedute e ventiquattro in piedi.
Una volta padroneggiate queste posizioni (la cui descrizione completa esula dai limiti di questa recensione) si passerà all’obiettivo di “muoversi nell’immobilità”, che consiste nell’attivare, attraverso l’alternanza tra contrazione e rilassamento, proprio i muscoli a riposo, cioè gli antagonisti. Inizialmente il neofita contrarrà l’intero arto inferiore, ma successivamente riuscirà a escludere le cosce e infine riuscirà a isolare e concentrare la forza attivando i soli muscoli dei piedi.
Esercizi più complessi e avanzati sono il Chou Ba (contrazione elastica), il Qiu Fang (chiusura, elevazione ed esplosione di forza), per arrivare al Jing Zha (esplosione istantanea della forza), obiettivo finale dello studio della pratica statica. L’autore conclude l’esposizione di queste metodiche di sviluppo energetico definendole una pratica fondamentale per sviluppare le potenzialità nascoste all’interno del corpo, sia ai fini del benessere psicofisico, sia per il combattimento: quindi (ipotizzo), le considera una forma di potenziamento da abbinare alla pratica del karate.
PARTE SECONDA: karate e difesa personale
È la parte del libro che maggiormente ha toccato le mie “corde”, perché anch’io, come l’autore e la maggior parte dei praticanti degli anni ’60 e ’70, ho iniziato la pratica con la motivazione dell’autodifesa.
Inizia con un “dialogo socratico” sull’applicabilità del karate all’autodifesa, il succo del quale mi pare il seguente: si deve partire dal bunkai dei kata e applicare l’intero repertorio del karate (pugni e percosse, calci, lotta e manipolazioni articolari) in una situazione di reale disagio emotivo, che riproduca realisticamente un’aggressione per strada, e quindi non con un partner compiacente, come spesso avviene in palestra.
È una raccomandazione che ci rivolge spesso anche il Maestro Fugazza quando pratichiamo bunkai: dobbiamo entrare nella “comfort zone” del compagno e attaccarlo seriamente per aiutarlo a migliorare!
Allenare il coinvolgimento emotivo attraverso la visualizzazione degli avversari nei kata e la pratica in condizioni realistiche dei loro bunkai.
Successivamente l’autore parla dei “tre cervelli”: è quello più antico, il rettiliano, costituito da talamo, ipotalamo, tronco cerebrale e cervelletto, a entrare in gioco quando c’è un pericolo. Nella difesa personale, chi ha la capacità di utilizzare il cervello rettiliano “potrà combattere per la propria sopravvivenza come fanno gli animali” (p. 86). Secondo Montanari è possibile attivare il cervello di sopravvivenza con particolari esercizi, tramandati da molte scuole di combattimento cinesi.
“La paura: come farsela amica e utilizzarla in combattimento”. La paura istintiva è utilissima, perché prepara il corpo ad affrontare sia una lotta, sia una possibile fuga. Invece, le paure psicologiche o fobie (paura immotivata di qualcosa che potrebbe accadere, come ammalarsi o perdere il posto di lavoro) sono dannosissime, perché attivano continuamente “a vuoto” il meccanismo di sopravvivenza, producendo una situazione di ansietà cronica e stress, responsabile di patologie come l’ulcera e l’infarto.
L’autore si propone l’obiettivo ambizioso di “rieducare il funzionamento del meccanismo adrenalinico, attivando o bloccando il sistema in modo volontario” (p. 88). Il karateka lo potrà fare innalzando la soglia oltre la quale scatta l’”allarme generale”. Come? Aumentando il livello di coinvolgimento emotivo durante gli allenamenti, come avveniva agli albori del karate a Milano, nel quinquennio 1965-70, quando “in ogni lezione l’incolumità era ad alto rischio; non si sapeva mai in che condizioni si sarebbe tornati a casa”.
A partire dagli anni ’70, le cose cambiarono: la sicurezza nel kumite aumentò per venire incontro alle esigenze della grande maggioranza dei praticanti, che fa karate per mantenersi in buona salute psico-fisica; ma diminuì la capacità di non soccombere in un jissen (combattimento reale) e, di conseguenza, l’utilità del karate ai fini della difesa personale. L’autore non propone però di tornare agli epici scontri di mezzo secolo fa, ma di allenare il coinvolgimento emotivo attraverso la visualizzazione degli avversari nei kata e la pratica in condizioni realistiche dei loro bunkai.
Cosa accade dentro di noi al momento di uno scontro reale? Montanari si sofferma sugli aspetti fisiologici dello stress, che possono essere mitigati, oltre che con l’assuefazione (familiarità con situazioni ad alta pressione), anche con la respirazione autogena, o controllo volontario del respiro, per il quale tuttavia c’è pochissimo tempo in una situazione di vero pericolo.
Di fronte a un’aggressione, ci possiamo trovare in una delle cinque condizioni descritte da Cooper (Jeff Cooper, Principles of Personal Defense) e rappresentate visivamente da quattro diversi colori:
- codice bianco (o “sonno verticale”): le potenziali vittime sono totalmente disattente, una condizione ideale per il predatore;
- codice giallo: stato di attenzione diffusa e rilassata, si è pronti a reagire e pienamente consapevoli dell’ambiente. È la condizione di zanshin del praticante di arti marziali;
- codice rosso (coscienza di un pericolo imminente): la frequenza cardiaca è tra i 115 e i 125 battiti al minuto, ci si trova nelle migliori condizioni per attaccare o per fuggire, ma si perde la manualità fine, perché le mani tremano e la voce è alterata;
- codice grigio (pulsazioni oltre 145 bpm): in queste condizioni la maggior parte di noi ha un calo rilevante delle capacità fisiche, ma soggetti ben allenati (come i piloti di Formula 1) mantengono la capacità di compiere movimenti coordinati e complessi;
- codice nero: condizione di stress estremo (oltre i 175 bpm), produce una totale incapacità di muoversi o parlare, perdita di memoria, distorsioni sensoriali, “visione a tunnel”.
La prevedibile conclusione è che, nel momento cruciale della verità, bisogna evitare di finire in codice nero!
Secondo Montanari, l’enfasi maggiore dovrebbe comunque essere posta sulla prevenzione, tenendo ben presente che spesso l’aggressore utilizza il “rituale delle 3 d”: domandarti qualcosa per distrarti e, quindi, “distruggerti”.
Contro tale strategia la difesa migliore sarà sempre: 1) non essere lì; 2) allontanarsi il più rapidamente possibile; 3) se anche questo non è possibile e la dissuasione verbale non funziona, occorrerà applicare “barriere” di intensità crescente, opponendo una distanza di sicurezza tra noi e l’aggressore.
La “barriera invisibile” è una posizione delle braccia vicine al proprio corpo che, mentre trasmette calma alla controparte, ci rende pronti ad eseguire la nostra tecnica preferita. La “barriera di controllo” utilizza invece la voce e le braccia distese davanti a noi per soffocare sul nascere il conflitto. La “barriera aggressiva” mira a destabilizzare l’aggressore simulando una crisi isterica, la “barriera remissiva” comporta invece una recita in senso opposto, simulando paura ed esitazione.
L’autore non propone però di tornare agli epici scontri di mezzo secolo fa, ma di allenare il coinvolgimento emotivo.
Se nulla di tutto questo ha effetto, si passerà all’esecuzione dell’attacco preventivo (ikki-uchi) che dovrà, scrive l’Autore, essere “fulmineo, esplosivo, semplice ed efficace” (p. 108).
Montanari suggerisce un pugno circolare alla mascella o, meglio ancora, un teisho-uchi per evitare di ferirsi le nocche; se l’attacco non fosse decisivo, propone di concluderlo con uno strangolamento sanguigno che in pochi secondi può portare allo svenimento per il mancato afflusso di sangue al cervello. In ogni caso, ciascuno dovrà eseguire il proprio tokui waza, che sarà in grado di effettuare anche in “codice rosso”.
All’obiezione etica di chi ritiene che questa strategia ci abbassi allo stesso livello dell’aggressore e sia contraria ai principi del Karate-Do e in particolare al secondo principio del Niju Kun (Karate Ni Sente Nashi), l’autore ragionevolmente replica (p. 167) che lo stesso M° Funakoshi suggerisce, quando non sussista alcuna possibilità di fuga, di prendere in considerazione la necessità di utilizzare il karate e, in tal caso, di sferrare “con l’energia di tutto il corpo un attacco a un punto vulnerabile”.
Una ventina di pagine sono poi dedicate agli aspetti legali della difesa personale, un argomento troppo spesso trascurato da chi si occupa della materia. In estrema sintesi, i consigli del magistrato e dell’avvocato sono concordi nell’affermare che: chi si difende non è incriminabile se vi è il pericolo attuale di un’offesa ingiusta e si trova nella necessità di difendere un diritto proprio o altrui. Il pericolo deve essere attuale, cioè reale e imminente (non passato, futuro o presunto) e la necessità comporta che l’aggredito non vi si possa sottrarre allontanandosi. Inoltre, si è autorizzati a difendere non solo se stessi, ma i propri cari o chiunque sia vittima di un’aggressione.
Infine, la difesa dev’essere proporzionata all’offesa, cioè (ad esempio) non si può riempire di botte un ladro che vi ha sottratto con destrezza il portafoglio.
PARTE TERZA: vincere senza combattere
Montanari è convinto che la pratica del karate, sia pure quello che si definisce tradizionale, non sia sufficiente per procedere nella Via: “Un karate autenticamente tradizionale dovrebbe mettere a disposizione di ogni praticante […] un metodo completo provvisto di tutte e tre le possibilità di crescita: dalla tecnica all’arte, e dall’arte alla Via” (p. 159). Secondo lui, invece, si è diffuso l’equivoco secondo il quale, ricercando il perfezionamento tecnico, si potessero sviluppare anche i valori umani. Invece “il lavoro fisico è necessario ma non basta; andrà abbinato a un altro tipo di Lavoro. Questo Lavoro potrebbe essere la pratica Zen”.
Al buddhismo e alla sua versione Zen Montanari dedica due capitoli. Qui possiamo solo accennare ad alcuni principi: la sofferenza accompagna gli uomini dalla nascita alla morte; la causa della sofferenza è l’attaccamento alle cose di questo mondo; la cessazione della sofferenza si può ottenere con il distacco dalle cose di questo momento attraverso l’Ottuplice Sentiero. Lo Zen propone il proprio cammino iniziatico dell’essere umano verso il risveglio, alla fine del quale l’Io si identifica con il Tutto, scoprendo di non essere soggetto a nascita e morte: una concezione non troppo diversa da quelle del neo-platonismo, o del panteismo di Spinoza, o dalla teoria dell’Assoluto di Schelling.
La sezione successiva del libro è una serie di domande e risposte, molto più ampia di quella sull’autodifesa, preceduta da una premessa in cui l’autore afferma di guardarsi bene “dal ritenersi un Maestro con la capacità di guidare e accompagnare i propri allievi lungo un percorso di evoluzione personale”.
Da questo dialogo socratico estrarrò solo i concetti che mi sono più chiari.
- Cosa significa scoprire se stessi? “Ogni autentica Via deve condurre alla stessa meta suprema: l’identità con l’essenza e il ritorno all’Unità”. Come si dice in questi casi? Non ci credo, ma rispetto chi ci crede.
- Qual è il lavoro necessario per risvegliarsi? Osservarsi, scoprendo quanto tempo della giornata è trascorso rimanendo prigionieri della nostra vita istintuale e meccanica. Essere presenti significa anche non identificarsi con le emozioni negative, che sono inutili sprechi energetici.
- Come fare per trasmutare le emozioni negative? Dapprima limitarci a osservarle senza identificarci con esse, poi, cavalcare la tigre, cioè resistere all’irrefrenabile impulso di esprimerle esternamente cogliendone l’aspetto utile: “Una scimmia gettò da un albero una noce di cocco in testa a un sufi. L’uomo la raccolse, ne bevve il latte, mangiò la polpa e col guscio si preparò una ciotola.” (p. 225).
Anche se condivido solo in parte i presupposti teorici e le conclusioni della ricerca spirituale del M° Montanari, ho come lui la convinzione che l’auto-osservazione critica possa esserci di aiuto per liberarci dalle sovrastrutture inutili che l’educazione e la convivenza con gli altri hanno sovrapposto alle nostre aspirazioni più sincere, quelle che l’Autore chiama la nostra essenza. Questo libro ha il grande pregio di proporci strade nuove che, per ignoranza o pigrizia mentale, non avevamo mai preso in considerazione. Perché facciamo karate? Il modo in cui pratichiamo ci appaga pienamente? Siamo soddisfatti della vita che facciamo? Se non è così, sarà buona norma leggere (o rileggere) queste 252 densissime pagine.