Sono convinto che il metodo didattico delle 3K induca una pratica del karate disomogenea, rendendo di fatto questi tre compartimenti (kihon, kata e kumite) del tutto stagni.
Chiunque conosca il karate sa che la pratica è generalmente suddivisa in tre macro settori: kihon, kata e kumite. Questa tripartizione si riscontra maggiormente nel karate di stampo giapponese (Shōtōkan e Shōtōkai in primis) e in maniera più minoritaria anche nel karate di Okinawa (dei giorni nostri).
Sono convinto però che il metodo didattico delle 3K induca una pratica del karate disomogenea, rendendo di fatto questi tre compartimenti (kihon, kata e kumite) del tutto stagni, scollati l’uno dall’altro.
Ecco alcuni esempi:
- nel kumite si usano non più di 3/4 tecniche diverse e la metà di esse non sono nemmeno presenti nei kata (ad esempio mawashi geri, ushiro geri, tobi zuki);
- nei kata sono presenti decine di tecniche diverse e la maggior parte di esse non sono mai allenate durante la pratica del kihon né del kumite (kakiwake uke, ushiro naname zuki, manji uke, tsuru dachi, ō-yama gamae …);
- nel kihon si praticano (spesso) combinazioni di tecniche del tutto assenti nel kumite (e assenti anche nei kata, ovviamente).
Sono convinto però che il metodo didattico delle 3K induca una pratica del karate disomogenea.
In pratica è come se si allenassero tre discipline diverse, ognuna caratterizzata dal suo modo di muoversi e di concepire le tecniche. In altre parole con kihon e kata ci si allena da soli in un modo e quando si fa kumite con un compagno (intendendo per kumite le versioni semi-libere e libere/jiyū, non la pratica preordinata/yakusoku) si combatte in un altro. Credo che a livello marziale non ci sia nulla di più deleterio.
D’altronde questo tipo di scollamento non è una caratteristica solo del mondo amatoriale, ma anzi trova la sua più alta espressione nelle competizioni sportive (Olimpiadi comprese), dove kata e kumite rappresentano due discipline del tutto distinte, come a decretare il fatto che una non ha niente a che fare con l’altra.
I pionieri dell’arte (Itosu Ankō, Yabu Kentsū, Hanashiro Chōmo, Funakoshi Gichin, Motobu Chōki, Kenwa Mabuni, solo per citarne alcuni) avevano invece un’idea ben diversa riguardo kata e kumite. Leggiamo ad esempio quello che scriveva Funakoshi nel suo primo libro Tō-te Ryūkyū Kenpō, 1922:
“Il kumite non è una tecnica specifica, è piuttosto un metodo per allenare i kata in cui due contendenti simulano un combattimento reale [實戦 / jissen]. Quindi, se i kata fondamentali [基本の型 / kihon no kata, qui ci si riferisce a kata come Naihanchi/Tekki] sono stati interiorizzati [cioè se le applicazioni a coppie sono state allenate a dovere], sarà possibile utilizzarli in situazioni di emergenza. Pertanto [il kumite] è semplicemente un uso del kata.”
E ancora, il maestro Funakoshi, nel suo libretto tecnico per eccellenza Karate-Dō Kyōhan, 1935, scriveva:
“Il kumite rappresenta un modello [型] in cui si praticano le tecniche difensive e offensive già apprese nei diversi kata, ma all’interno di un contesto assimilabile a situazioni realistiche. Inutile dire che il kumite non dovrebbe essere indipendente e separato dal kata, poiché ogni kata viene applicato nel kumite. Pertanto, sacrificare la pratica del kata per quella del kumite non dovrebbe mai accadere.”
Inutile dire che il kumite non dovrebbe essere indipendente e separato dal kata, poiché ogni kata viene applicato nel kumite.
Il concetto mi sembra piuttosto chiaro: il kumite non può esistere se viene separato dal kata. In seconda battuta, sempre stando alle parole di Funakoshi, mi sento di dire che il kumite generalmente praticato, incluso quello sportivo, non rappresenta “un contesto assimilabile a una situazione realistica”, dove per realistica s’intende statisticamente realistica. La probabilità di essere attaccati/aggrediti con un pugno (o un calcio al volto) portato da due metri di distanza, da una persona con buone qualità atletiche e dotata di protezioni alle mani, è tendenzialmente vicina a zero. Sono molto più probabili (uomo contro uomo, per le donne il discorso cambia un po’) i seguenti scenari violenti:
- Uno dei due spinge, l’altro spinge a sua volta, il primo dei due sferra uno “swing”.
- Una presa frontale ai vestiti, con una mano, seguita da un pugno alla testa.
- Una presa frontale ai vestiti, con due mani, seguita da una testata.
- Una presa frontale ai vestiti, con due mani, seguita da una ginocchiata all’inguine/genitali.
Funakoshi cita di nuovo kata e kumite all’interno del suo diciottesimo precetto:
形は正しく実戦は別物 – “(esegui) il kata correttamente, il combattimento reale (è) un’altra cosa”.
Apparentemente questo precetto sembra contraddire parzialmente quello che il maestro aveva scritto nel suo libro del 1935, in realtà non è così. Cercherò di spiegarlo facendo ricorso a un’altra arte giapponese fortemente connessa al Budō: lo Shodō, l’arte della calligrafia.
Ci sono vari modi di scrivere gli ideogrammi. È possibile scriverli in maniera formale, adatta alla stampa: questo modo di rappresentarli è governato da precise regole, dimensioni e proporzioni. Ma è possibile scriverli anche in maniera più libera, fluida, in cui vi è libertà di dare la propria interpretazione al carattere originale. [Vedi foto]
- Il primo modo di scriverli (Kaisho / 楷書), caratterizzato da rigide convenzioni e regole immutabili, rappresenta il kata.
- La scrittura corsiva (Sōsho / 草書), con le sue infinite variazioni, più liberta e infusa della personalità dello scrittore, rappresenta il kumite.
Il kumite generalmente praticato, incluso quello sportivo, non rappresenta “un contesto assimilabile a una situazione realistica”.
Il kumite è la libera espressione del kata.
Se si ignora il carattere nella sua forma stampata, usando solamente la scrittura corsiva, la forma originale assieme al suo significato verrebbero a perdersi. Questo vale anche per il karate: in questo senso va inteso il diciottesimo precetto di Funakoshi.
Diventa importante quindi studiare approfonditamente ogni singolo kata, estrarne i principi applicativi e tattici, lavorarli a coppie e sviluppare molte variazioni. Una volta che si sono apprese le strategie e i principi che il kata vuole trasmettere, la pratica deve diventare meno formale e il karateka deve essere autonomo nell’applicare il kata: si spezzano le catene della forma (kata) per dare spazio alle applicazioni libere (kumite).