Per i praticanti di Arti Marziali tale concetto richiama la capacità di mantenere uno stato di piena concentrazione psicofisica prima, durante e oltre l’esecuzione di una tecnica.
La parola Zan Shin in lingua giapponese esprime un concetto che va ben oltre il significato intrinseco dei due kanji che lo formano. In una logica di tipo puramente occidentale, potrebbe coincidere con uno stato di pienezza consapevole dell’essere e, quindi, quello della prevalenza assoluta della sua anima sul corpo materiale.
Questo stato si può manifestare per specifici accadimenti e gestualità o raggiungere, per elevati livelli di competenza, una condizione di completa trasposizione in ogni aspetto dell’esistenza, aldilà di ogni possibile paradigma dello spazio e del tempo. Tale stato – derivante a sua volta da una piena condizione di jitsu – esprime la prontezza e la cognizione assoluta dell’esecutore, contrapposto a quello di kyō, il vuoto psicofisico del tutto passivo e inconsapevole, piena espressione dello stato di disattenzione e distrazione, lo stupor.
Tale stato – derivante a sua volta da un pieno stato di jitsu – esprime la prontezza e la cognizione assoluta dell’esecutore.
In un’ottica più orientale, quella dello Zen, il concetto può essere tradotto, meglio diremmo interpretato, in Spirito del Gesto, non necessariamente di tipo materiale, intendendo con la parola spirito lo stato di attenzione totale o di presenza assoluta nell’esecuzione di una qualsiasi attività.
Per i praticanti di Arti Marziali, tale concetto richiama la capacità di mantenere uno stato di piena concentrazione psicofisica prima, durante e oltre l’esecuzione di una tecnica, tanto in ambito individuale che in rapporto a un avversario. In questa veste, evoca lo stato psicofisico dei Samurai nell’atto di sferrare una tecnica mortale. Uno stato preesistente al gesto materiale, un qualcosa di già accaduto e, per questo, non necessitante di alcuna volontà consapevole.
In ambito Zen è possibile trovare una delle prime citazioni dello stato di Zan Shin nel racconto di un vecchio saggio intento a osservare, in una condizione di piena concentrazione, gli effetti di una nevicata sulle chiome di una quercia e di un salice. L’uomo rilevava la strenua resistenza della potente quercia che, in ogni caso, a un certo punto cedeva schiantandosi sotto il peso troppo a lungo sopportato, in contrapposizione all’estrema flessibilità del salice che scaricava la neve accumulata flettendosi e raddrizzandosi in continuazione, resistendo indenne all’abbondante nevicata. In questo senso, quindi, lo stato di Zan Shin potrebbe evocare quello di resilienza consapevole e non specie-specifica.
Quando il concetto di Zan Shin viene interpretato come “lasciare la coscienza o la mente”, ci si può riferire alla presenza dell’avversario nel proprio spazio prossemico. In questa dimensione di assoluta “non mentalità” di tipo animale (lo Iai), la conoscenza dell’essere diventa caratteristica basilare dell’interazione fra esseri viventi.
In questa accezione il richiamo al combattimento è palese e descrive il distacco totale da una parte della coscienza, atto a realizzare lo stato di vigilanza assoluta. Quello proprio della piena natura animale, svincolata dalle sovrapposizioni e limitazioni della coscienza di tipo umano. È chiaro in tale situazione il richiamo alla presenza di un possibile pericolo, indipendentemente dalle reali condizioni dell’avversario che potrebbe, magari in punto di morte, sferrare il suo ultimo attacco.
Apprendere e comprendere lo Zan Shin vuol dire prima o poi incorporarlo completamente e profondamente nella propria esistenza, raggiungendo lo stato di piena consapevolezza, il Satori. Non un isolamento dal resto del mondo, ma una piena apertura alla percezione di tutti i possibili dettagli ancor prima che questi si manifestino. Un “fare” per produrre un aumento della bellezza universale, rendendola disponibile a chiunque.
Questo, altro non è che il particolare stato di grazia di un esperto praticante del Cha No Yu, la Cerimonia del Tè, ma anche lo stato di totale dedizione di un praticante di Shodō, l’Arte della Calligrafia. Ambedue questi praticanti, nella loro attività, proiettano non tanto l’espressione materiale delle loro gestualità, quanto il loro intento intrinseco ed emozionale, sforzandosi di non incorporare, nell’atto, le proprie sensazioni. In questa accezione lo Zan Shin è prendere atto definitivamente della rilevanza assoluta di ogni possibile dettaglio di ciò che si fa, per conferirgli valore illimitato e unico.
Quindi, qualsiasi attività, se svolta con Zan Shin, diventa una pratica di ricongiunzione con la propria essenza più profonda, non avulsa dal proprio essere e agire quotidiano. In quest’accezione pertanto, il qui e ora dello Zan Shin è un qui e ora espresso nel tempo e nello spazio condivisi, una sorta di realtà sempre presente in quanto non più volontaria, ma pienamente compenetrata nella sfera vitale. Non a caso, questa caratteristica lo accomuna con l’essenza dell’inconscio e la manifestazione dell’Anima, divenendo l’espressione del Karma manifestante gli equilibri dell’Universo. Come tale, rappresenta una via di ricongiunzione con quel Tutto che allo stesso tempo è l’Uno presente in ogni dimensione spirituale.
Nelle Arti Marziali di norma ci sono un Maestro e un allievo, in questo rapporto, non solo formale, si realizza l’apprendimento in cui la pratica, sotto una guida autorevole, permette la concentrazione assoluta, svincolando l’esecutore dal compito di pensare durante la stessa.
Fanno parte del rapporto anche uno specifico habitat e le regole di cui tenere conto, che realizzano un reale mezzo di apprendimento della “non casualità” di nessuno dei gesti compiuti dal momento in cui ci si accinge alla pratica. Avviene una sospensione dei parametri tempo e spazio utile a focalizzare ogni più piccola energia e dettaglio di esecuzione, perché nello Zan Shin non esistono dettagli piccoli o grandi, importanti o marginali. Tutto è semplicemente del tutto e pienamente reale e attuale.
Distacco totale da una parte della coscienza, atto a realizzare lo stato di vigilanza assoluta.
La pratica dello Zan Shin, evidentemente, non è un esercizio esclusivamente mentale. Nello Zan Shin il praticante impara a essere presente con naturalezza, senza tensioni o eccessivo rilassamento, per non disperdere inutilmente energie preziose. Al contrario, è proprio il momento in cui la mente smette di “trattenere”, di voler o non voler fare, che consente alla realtà di materializzarsi, indirizzandola non consapevolmente. Ciò accade quando coscienza, intenzione e azione coincidono, esprimendo una grande fiducia negli equilibri dell’Universo.
In questo senso, lo Zan Shin diventa un vero mediatore spirituale e, in quanto tale, si rivela un possibile déjà vu, una sincronicità, nella quale non c’è più bisogno della mente per fare accadere, ma è l’anima che ritorna a dirigere il corpo materiale per portare a termine l’esperienza dell’essere spirituale precostituita nel suo Karma e frutto del successivo libero arbitrio.
Zan Shin è quell’alchimia per cui, essendo sempre più presenti nell’istante, lo si onora pienamente per quello che è, senza nessuna aspettativa, in quanto è il solo qui e il solo ora in cui è possibile essere, espressione pura di una volontà astratta da ogni parametro del tempo e dello spazio.
È qui che qualsiasi, apparentemente insignificante, gesto si integra con l’intenzione amorevole che lo sostiene, realizzando la massima evoluzione spirituale. È in questo particolare stato di presenza che la percezione di separazione svanisce, portando all’essenza, guarigione dalle sofferenze precostituite nel quadro evolutivo spirituale. È in questo momento che subentra la gioia semplice di essere, altrettanto semplicemente, nel puro momento e in piena armonia con esso.