Il Maestro, per dirlo con le parole del Buddha, ci insegna a essere “maestri a noi stessi”.
A cura di Giovanna Tonon, Associazione “Pensare il presente”
È sempre un piacere ascoltare il professor Massimo Raveri. Era già stato nostro ospite per la rassegna “Pensare l’Oriente” a settembre 2017, quando, in occasione dei Mondiali di Karate Shotokan, aveva dialogato con il prof. Vittorino Andreoli su Oriente e Occidente. Domenica 29 settembre 2019 è tornato a confrontarsi con noi, questa volta prima del Seminario di tecnica e cultura “Praticando insieme karate-do” (organizzato dal Comitato Veneto FIKTA e dall’Associazione GIKO ndr), con un tema in grado di collegarsi perfettamente alla pratica del karate: la figura del maestro.
Lo shodo è un’arte delicata, immateriale, che sembra per molti aspetti opposta al karate, ma che è ugualmente una via di meditazione e di liberazione.
Massimo Raveri ha raccontato la sua esperienza personale di quando, giovanissimo studioso in Giappone, ha voluto fortemente avvicinarsi allo shodo, la calligrafia, che ha approfondito per quattro anni attraverso il rapporto con il suo maestro, un grande calligrafo di Osaka. Ci ha raccontato, con leggerezza e profondità, le piccole incomprensioni, l’avvicinarsi a una cultura tanto diversa, gli impliciti culturali che vengono smascherati dalla frequentazione e dalla conoscenza, il rapporto complesso con un maestro esigente e affascinante.
Lo shodo è un’arte delicata, immateriale, che sembra per molti aspetti opposta al karate, ma che è ugualmente una via di meditazione e di liberazione. È una disciplina della mente: bisogna essere lucidi, veloci, fulminanti. Proprio come nel karate, il fluire deve essere leggero. È una via di concentrazione: il calligrafo non è solo un artista, ma anche un maestro spirituale.
La calligrafia è un processo di essenzialità che insegna a togliere ciò che è superfluo: la calligrafia zen usa solo il bianco e nero, usa il vuoto come parte della composizione. È una via religiosa non tanto per i soggetti o i testi che disegna, ma per la sacralità che è presente nel gesto stesso di chi dipinge. E la pratica dello shodo non inizia con il dipingere vero e proprio, ma dalla preparazione dei materiali, dalla predisposizione necessaria per fare vuoto e accogliere l’insegnamento. Il prof. Raveri ha ricordato la propria impazienza nella preparazione dell’inchiostro, la sensazione che fosse una perdita di tempo, evitabile facilmente acquistando i materiali pronti invece di prepararli, e la reazione irata del maestro che gli raccomanda, invece: “È essenziale che tu renda pura la tua mente concentrandoti nei gesti del quotidiano”. Come nella cerimonia del tè, ogni gesto e ogni pausa hanno un significato.
Il maestro fa proprio questo: con rigore e consapevolezza ci rivela a noi stessi, ci rivela la bellezza che era già dentro di noi.
Qual è allora il ruolo del maestro in questo percorso?
Per Raveri il maestro esercita una vera e propria crudeltà sull’allievo: piega il suo ego e gli infligge una sofferenza psicologica costringendolo a copiare, a non esprimersi liberamente, a non proporre la sua “creazione spontanea”. Ma è proprio il concetto di “spontaneità” a essere esplicitamente diverso, quasi opposto, a quello cui siamo abituati: l’esempio di Pollock, che crea con il “dripping”, lo sgocciolamento casuale del colore sulla tela, viene contrapposto all’insegnamento dello zen.
Per noi occidentali la spontaneità è una sorta di “valore iniziale”, per lo zen è l’opposto: l’io egoico non è né spontaneo né innocente. È necessario dimenticare se stessi attraverso un percorso duro e doloroso: solo allora sarà possibile innovare davvero, in una dimensione più grande rispetto a quella dei nostri io finiti. Il maestro fa proprio questo: con rigore e consapevolezza ci rivela a noi stessi, ci rivela la bellezza che era già dentro di noi.
Per dirlo con le parole del Buddha, ci insegna a essere “maestri a noi stessi”.