L’impatto dell’Hiroshi Shirai Goshin Do nella pratica del Karate Do pone il praticante in una condizione di “risveglio”.
L’impatto dell’Hiroshi Shirai Goshin Do nella pratica del Karate Do pone il praticante in una condizione di risveglio. Tale condizione, pur partendo dalla pratica fisica, inevitabilmente concerne, prima o poi, altri aspetti del resto della sua struttura energetica individuale.
Praticare per tanti anni Karate Do, conferisce all’individuo molti strumenti di crescita fisica, mentale e spirituale. Tuttavia, paradossalmente, in alcuni casi, può inibire taluni aspetti di quella istintualità così indispensabile in una situazione di combattimento realistico. Questo perché il Karate, nel momento in cui diventa Do, pone (giustamente) come principio di riferimento, la vita e quindi la sua incolumità.
In tale accezione, la rinuncia al combattimento, non rappresenta un atto di codardia, ma un atto d’amore.
Nell’Hiroshi Shirai Goshin Do si arriva allo stesso risultato, ma partendo dal principio contrario (la possibile, se non certa, morte di uno dei due contendenti), ossia dalla presa d’atto che, se si è arrivati a uno scontro, sono falliti tutti i possibili tentativi per poterlo evitare. Da quel momento non ha più senso parlare di vita, essendo prioritario a quel punto rapportarsi con la possibile evenienza contraria.
In tale accezione, la rinuncia al combattimento, non rappresenta un atto di codardia, ma un atto d’amore. Amore per la vita che, del resto, sostiene la determinazione a non soccombere, nel caso in cui lo scontro risulti inevitabile.
Ho intrapreso da alcuni anni, a causa di una malattia ritenuta incurabile, un percorso di crescita personale che mi sta ponendo in condizione di percepire, di volta in volta, gli stimoli necessari al manifestarsi delle risorse mentali, fisiche ed emozionali utili ad affrontare con miglior profitto le susseguenti opportunità del momento.
Sto imparando cioè a selezionare, fra le tante possibili circostanze, la realtà favorente il manifestarsi delle evenienze che, di volta in volta, mi mettono in condizione di trarre il maggior profitto possibile dalle attività svolte.
Tale attitudine nella psicologia di tipo junghiano viene definita sincronicità e richiama all’innata facoltà della mente umana, di co-creare la realtà preventiva, atta a esprimere un successivo stato di bisogno. Secondo tale teoria, questa non sarebbe altro che la circostanza attivante che la mente inconscia, avente la capacità di andare liberamente avanti e indietro nel tempo, predispone in un processo di progresso retrogrado. In tale evoluzione, la mente umana sarebbe capace di determinare l’esistenza, o meglio, la selezione a priori della realtà che si manifesterà a posteriori. In altre parole, secondo questa teoria l’effetto scatenerebbe la causa.
… lo stato di distacco mentale da ogni forma di ragionamento, in particolare dalle emozioni distruttive, rabbia e paura…
Tale capacità, trova riscontro un po’ in tutte le religioni e filosofie spirituali, ancorché manipolata e distorta a scopo di controllo delle masse, attraverso l’induzione dello stato di coscienza, influenzato dai modelli di riferimento sociali, religiosi e politici e non dal bene assoluto, definito stato di Coscienza Cristica o Amore Incondizionato.
Questa mattina, ad esempio, nell’attesa dell’inizio dello stage di Hiroshi Shirai Goshin Do [Ravarino 16.12.18 N.d.R.], ho letto un brano di un libro molto interessante di crescita personale, nel quale si parlava – e questa è, secondo me, certamente una sincronicità – della “tigritudine”.
La “tigritudine” è, per l’autore di questo libro, lo stato di fatto per cui una tigre, quando porta un attacco – di per sé concepito in un’ottica esclusiva di letalità necessaria alla sua stessa sopravvivenza – lo fa senza nessuna di quelle sovrapposizioni coscienziali limitanti, tipiche dell’essere socializzato.
Questo fatto la mette in una condizione non “peccaminosa” nei confronti del contesto sociale di riferimento. In altre parole, la morte da essa scatenata, al pari di quella generata ad esempio da un terremoto, non verrebbe mai giudicata da nessuno un evento evitabile e, in quanto tale, una precisa scelta di violenza fine a se stessa.
La “non presenza della coscienza”, in ambedue le manifestazioni generanti la morte, in pratica riconduce allo stato di Divinità, secondo il quale, si nasce e si muore in relazione alla manifestazione di un equilibrio energetico precostituito, da taluni definito con il concetto di karma o azione. Tale concetto, detto in maniera estremamente semplicistica, esprime la relazione fra la causa e l’effetto dei comportamenti degli esseri senzienti.
È dalla capacità di ricerca ed esercizio del Mushin, che il praticante può trarre lo stato di efficienza psicofisica richiesta nelle situazioni di pericolo reale. Tale è lo stato di distacco mentale da ogni forma di ragionamento, in particolare dalle emozioni distruttive, rabbia e paura, espressioni pure dell’incessante attività dell’Io cosciente, influenzato continuamente dall’Inconscio, depositario tra l’altro delle limitanti memorie dolorose e fallimentari.
Nello Zen tale stato mentale, definito di Mente Chiara, si può estrinsecare nell’esecuzione magistrale del cerchio dell’Ensō.
Nello Zen tale stato mentale, definito di Mente Chiara, si può estrinsecare nell’esecuzione magistrale del cerchio dell’Ensō, attraverso un’unica pennellata d’inchiostro su un foglio di carta di paglia, senza alcuna possibilità di cambiamento o correzione, testimoniando la totale realtà dell’anima dell’esecutore in quel preciso istante, pura espressione delle migliori qualità del proprio inconscio.
L’aver percepito, in uno stato di particolare attenzione (che definirei di tipo animico) il testo, poco prima di questo bellissimo allenamento, mi ha consentito di cogliere profondamente il senso degli insegnamenti del Maestro Shirai, mantenendo uno stato di concentrazione ottimale, non ricercato, ma sostenuto dall’emozione espressa da quanto letto.