Bassano (VI) 23.09.18 – Relatori al Seminario di tecnica e cultura i professori Marcello Ghilardi e Aldo Tollini.
A cura di Giovanna Tonon – Associazione “Pensare il presente”
Al termine dello stage di karate Shotokan, organizzato dal Comitato regionale FIKTA e da GIKO a Bassano del Grappa il 22-23 settembre 2018, il prof. Aldo Tollini e il prof. Marcello Ghilardi hanno dialogato in un incontro dal titolo “Pensare il vuoto”.
Li abbiamo intervistati sui temi emersi durante la conferenza e, in particolare, sulla relazione che intercorre tra la nascita dell’ideale della Via, nel medioevo giapponese, e le arti marziali tradizionali come le conosciamo noi oggi.
Le prime domande le rivolgiamo al Prof. Aldo Tollini, già professore di Filologia giapponese all’università Ca’ Foscari di Venezia. Tra le sue numerose pubblicazioni possiamo citare “La cultura del tè in Giappone e la ricerca della perfezione” oltre che approfondimenti sullo zen e sul buddhismo giapponese. Uno dei suoi ultimi lavori è “L’ideale della via. Samurai, monaci e poeti nel Giappone medievale” per Einaudi, 2017.
… il potere delle armi non è mai un potere limitato: una volta interpellato, decide in autonomia come e se limitarsi.
Professor Tollini, nel suo libro “L’ideale della via” lei parla dell’avvento al potere dei Bushi nel Giappone medievale, a partire dalla fine del XII secolo. Quali erano le caratteristiche di questo gruppo?
La presa al potere dei Bushi avviene alla fine del XII secolo. L’aristocrazia della capitale comincia a perdere autorità quando chiede aiuto a delle bande di guerrieri locali che finiscono col diventare molto pericolosi, minacciando il potere, avendo quello delle armi, che può condizionare la corte. E il potere delle armi non è mai un potere limitato: una volta interpellato, decide in autonomia come e se limitarsi. L’imperatore non riesce più a tenere a freno i guerrieri e, alla fine, la corte imperiale affida a loro il compito di difendere il paese, di essere il braccio militare: formalmente gli shōgun sono i difensori contro i barbari.
Questo percorso inizia nel 1192, quando il leader di uno di questi clan militari Minamoto no Yoritomo, della zona centrale del paese, dopo varie battaglie emerge e fonda uno shogunato a Kamakura, lontano dalla capitale Kyoto. Il Giappone si trova così in una situazione ambivalente: un potere formale, mai negato, dell’imperatore e uno effettivo in mano ai militari. Dopo un periodo di grandi lotte, nel XVI secolo, all’inizio del Seicento emerge il dominio dello shogunato Tokugawa che manterrà il potere fino al 1868 quando, con la restaurazione Meiji, l’imperatore riprende in mano il potere effettivo e il governo del paese.
Che cosa sono le vie di cui, non a caso, parliamo al plurale?
Le vie sono diverse: poesia, teatro nō, bushi, ikebana, tè… ma sono diverse solo per la forma. Quello che le unisce, l’idea di fondo che sottende a ognuna, è una componente spirituale molto forte di ricerca della perfezione, nata in ambito buddhista. Nel medioevo giapponese la cultura e le arti sono fortemente influenzate dal buddhismo, come da noi del resto è stato con il cristianesimo. La spiritualità buddhista propone il perfezionamento di sé per arrivare all’illuminazione. L’ideale della via nasce così, come via buddhista: seguire una pratica spirituale per arrivare al proprio perfezionamento attraverso la meditazione, ma anche le arti.
Kata vuol dire modello. Si usa anche per designare lo stampo, la matrice. È, quindi, ciò che ti forma.
Le vie nascono nell’ottica di apprendere una tradizione e trasmetterla seguendo dei modelli: la forma, o kata, che conosciamo con questo nome anche nella pratica del karate. Che cosa si intendeva allora con kata, originariamente?
Non dobbiamo pensare che il percorso della via sia un percorso puramente individuale: lo è, ma è anche il dedicarsi a una tradizione consolidata. Il proprio io è la cosa meno importante, è rimosso e messo al servizio di una tradizione. È come nell’Europa del Medioevo, nelle botteghe dei grandi pittori: l’apprendista, il discepolo, ci va per imparare dalla tradizione di un maestro autorevole, secondo un modello che gli viene trasmesso e che deve seguire fino in fondo, farlo suo.
Anche oggi, una delle tre componenti fondamentali dello studio del karate è il kata, la forma, una successione di tecniche codificate che vengono imparate e perfezionate.
Kata vuol dire modello. Si usa anche per designare lo stampo, la matrice. È, quindi, ciò che ti forma. Kata ha un significato molto vasto: il modello che ti viene dato, l’insegnamento di base che ti permette di formarti secondo quella tradizione fino a raggiungere la perfezione nell’esecuzione. Questo comporta la trasmissione da maestro a discepolo che è fondamentale e viene, ancora, dal buddhismo zen: non c’è solo studio teorico, lettura, ma serve il contatto con la figura significativa e unica del maestro.
Il Prof. Marcello Ghilardi è stato nostro ospite a Treviso all’ultimo incontro di “Pensare l’Oriente”, a settembre 2017, nel quale ha dialogato con il M° Ofelio Michielan e il M° Fausto Taiten Guareschi sulla relazione tra lo zen e le arti marziali. È professore di Estetica all’Università di Padova, autore di “Arte e pensiero in Giappone”, in cui ha analizzato anche kendo e judo, e di “Filosofia nei manga: Estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo”. Pratica da molti anni karate, kendo e wushu. Ha studiato la calligrafia giapponese e la meditazione zen.
Senza il vuoto l’arte rischierebbe di essere ottusa, bloccata.
L’incontro di oggi si intitola “Pensare il vuoto”: un’associazione – pensare e vuoto – che genera contraddizioni per la filosofia occidentale. «Noi classifichiamo il mondo entro limiti e confini» dice Alan Watts ne “La via dello zen” e, classificando, separiamo una cosa dall’altra. Forse però questa dualità e questa separazione netta e inconciliabile (il pieno-il vuoto) non sono tali nel pensiero orientale…
Il tema del vuoto connesso al pensiero è problematico: tutta la tradizione sino-giapponese ha mostrato i limiti del pensiero e del linguaggio nel tentativo di definire quella che resta un’esperienza che è da provare, da praticare. Se fissiamo il vuoto come un concetto, lo perdiamo.
In Occidente il vuoto è stato il più delle volte inteso come antagonista rispetto a una forma di pienezza con la quale si pone in una contrapposizione insanabile, come il nulla rispetto a un essere.
Nelle tradizioni dell’Asia orientale si pensa la polarità, la relazione, piuttosto che la contrapposizione: pieno e vuoto possono essere intesi come opposti complementari (you 有 e wu 無, in cinese), come nell’esempio (tratto dal Daodejing) della brocca che deve essere costantemente riempita e svuotata; oppure, in un’accezione differente, il vuoto non è solo un antagonista funzionale, ma – scritto con un altro carattere, il cinese kong 空, che in giapponese si può leggere kū – si offre come lo sfondo originario da cui ogni possibilità emerge. In questo senso è anche il sinonimo di cielo (nella pronuncia sora): lo sfondo inoggettivabile, indicibile, a partire da cui tutto può accadere; la fonte primigenia di ogni realtà, che però dalla realtà non si distacca, non è cioè un principio ontologico assoluto, ma il puro e sempre “accadere” dei fenomeni.
Lei è professore di Estetica all’Università di Padova: in quale modo il vuoto entra nell’arte giapponese e cinese?
C’è un filo rosso che lega tutte le discipline che chiamiamo “artistiche”: il vuoto diventa una caratteristica, una sorta di operatore funzionale, che permette all’arte di esprimere la sua vitalità, una tensione positiva, un’animazione dinamica. Senza il vuoto l’arte rischierebbe di essere ottusa, bloccata: in un dipinto, in una composizione floreale, in una tecnica marziale deve poter circolare e trasmettere sempre l’energia vitale, quella che i cinesi chiamano qi 気 (in giapponese ki). Il vuoto permette di essere efficaci e al tempo stesso aperti all’insondabile, alla dimensione spirituale che si sprigiona dalla stessa materialità delle cose – del pigmento, dell’inchiostro, del tè, del bonsai, del fiore…
Nella stessa pratica del karate, del kendo, del judo, delle arti cinesi … il vuoto è essenziale sia da un punto di vista filosofico sia da un punto di vista pratico.
Lei pratica da decenni diverse arti marziali (karate, wushu, kendo). Ha incontrato in queste discipline la dimensione del vuoto?
A seconda di come si pratica, il vuoto emerge o rimane chiuso, non percepito. Non basta praticare un’arte per percepirne la presenza o per sperimentarlo. Nella stessa pratica del karate, del kendo, del judo, delle arti cinesi come il taijiquan o wushu, il vuoto è essenziale sia da un punto di vista filosofico sia da un punto di vista pratico. Dipende però sempre dall’insegnamento del maestro e, insieme, dalla capacità dell’allievo il saper cogliere e il riattivare questa dimensione. Si potrebbe vivere un’intera vita nelle arti marziali senza mai effettivamente riuscire a “sentire” e a fare esperienza del vuoto.
A volte non si sa nemmeno cosa sia e allora l’arte diventa solo una forma di movimento – che in sé non sarebbe male, ma che fallirebbe nel suo intento più profondo. Oppure, ci si illude di coglierlo, ma in realtà vi si passa a lato.
Resta fondamentale il rapporto tra insegnante e allievi: è nel contatto e nel confronto umano, da cuore a cuore (i shin den shin 以心伝心, come si dice in giapponese), che può scaturire una comprensione profonda, non solo intellettuale né soltanto esteriore.