Il “karate terapeutico” è il sogno del karateka e medico impegnato in favore dell’ass. Kids Kicking Cancer Italia Onlus.
(In KarateDo n.37 gen-feb-mar2015)
Enrico Cembran nasce a Roma, nel novembre del 1957, in un’Italia “molto diversa da quella di adesso, con meno benessere, ma con più ideali e tante speranze di cambiamento”.
Figlio di medico e dentista, Enrico Cembran si diploma inizialmente in ragioneria. All’età di 18 anni, inaspettatamente, tenta l’avventura della laurea in medicina e chirurgia per diventare odontoiatra. “Naturalmente gli inizi furono complicati – ci racconta il nostro intervistato –, ma la pratica del karate unita alla mia caparbietà, mi hanno sostenuto e fornito i mezzi mentali per uscire dalla grande ignoranza nella quale mi ero deliberatamente rifugiato per comodità”. Il risultato è stato il conseguimento della laurea in medicina e chirurgia a 24 anni con il massimo dei voti e l’inizio della carriera di odontoiatra.
Sin da ragazzo, in quella stessa Italia di grande fermento politico e nuovi ideali, Enrico Cembran inizia la pratica del karate. Nel 1982 consegue la qualifica di istruttore e nel 2014 diventa Maestro.
La passione e la pratica del karate si affiancano così alla carriera di medico, portando il nostro protagonista a impegnarsi con grande slancio e motivazione in un nuovo progetto: sostenere e svolgere attività in favore dell’associazione Kids Kicking Cancer Italia Onlus che “si occupa dell’insegnamento del karate, in ambito ospedaliero, in favore dei bambini gravemente malati. Uno dei miei sogni riposti nel cassetto – ci spiega nel corso dell’intervista – è proprio quello di creare una nuova competenza per tutti gli insegnanti di karate, quella del karate terapeutico”.
Andiamo a scoprire insieme questa nuova realtà e a conoscere più da vicino la storia del nostro protagonista.
Credo che nella vita le opportunità si presentino sempre quando siamo pronti a coglierle.
Maestro Cembran, quando e perché ha iniziato la pratica del karate?
Nel 1972 – epoca in cui i ragazzi italiani erano o “compagni” o “fasci” e non era tollerata la mancanza d’impegno politico – non essendo “allineato” politicamente venni considerato di destra e, in quanto tale, sottoposto alla pratica del “picchetto” sotto casa, con relative minacce e vessazioni. Proprio in quel periodo, un mio amico aprì un corso di karate nella palestra sotto casa e così decisi di iniziare con lui la pratica.
Chi è stato il suo primo Maestro?
L’amico di cui sopra, Paolo Facchin, all’epoca cintura marrone primo kyu.
Quando ha iniziato la pratica del karate con il Maestro Shirai?
Praticamente da subito e per circa tre anni, salvo poi, per i quattro anni successivi, essere stato coinvolto mio malgrado nel passaggio alla S.K.K.I. del C.S.K.S. di Roma. Non appena conseguito il II Dan, la laurea in Medicina e un sufficiente grado d’indipendenza emotiva da un ambiente che non ho mai amato, mi sono ripresentato al Maestro Shirai, anche grazie all’intercessione del M° Angelo Petrilli che ringrazio sentitamente. Il M° Shirai mi ha subito accolto come se il legame non si fosse mai interrotto, comunicandomi sempre grande stima e accettazione.
Quali aspetti della pratica del karate con il Maestro Shirai la affascinano maggiormente?
Seguire il M° Shirai nella sua continua evoluzione e sviluppo dell’arte marziale del karate non è certamente un compito semplice, ma di sicuro è una grandissima fonte di stimolo. Quello che mi affascina di più della pratica del karate con il Maestro è senz’altro la sua completa coerenza con i precetti del Dojo Kun e con gli ideali del Bushido, uniti alla sua grandissima conoscenza di quest’arte marziale.
Che significato ha per lei la pratica del Goshindo?
Il Goshindo rappresenta il complemento ideale alla pratica del Karate Do Shotokan tradizionale, derivando da questo e riavvicinandosi al karate così come nacque a Okinawa. Inoltre, il Goshindo consente a chi lo pratica di avvicinarsi alla dimensione più introspettiva dell’arte marziale.
In quale occasione ha conosciuto per la prima volta il Maestro Kase?
Conobbi “da vicino” il M° Taiji Kase in uno storico stage alla Scuola dello Sport di Roma, dove insegnò assieme ai Maestri Shirai e Fugazza. Rimasi subito e profondamente colpito dalle sue grandi doti di umanità, umiltà, benevolenza e naturalmente dal grande grado di sapere e capacità didattica.
Durante il suo percorso di karateka, quali altre persone hanno contribuito alla sua formazione?
Senz’altro il M° Toshio Yamada, grandissimo esecutore, buon insegnante e ottima persona; il M° Paolo Facchin, mio primo insegnante di Karate Do cui sono legato da un profondo rapporto di stima e amicizia; il M° Kosro Taghwa, il M° Sumi e il M° Giancarlo Vignoli che è stato il mio primo mentore per l’arbitraggio.
Si è dedicato anche all’attività agonistica?
Certamente. Ritengo che l’attività agonistica sia una componente fondamentale per la formazione di un giovane karateka. Inoltre, all’epoca, il karate non faceva distinzione: era una “Via”, ma era anche competizione – in quanto modo di mettersi in discussione – e le gare erano forse meno spettacolari, ma senz’altro più vicine agli ideali del Bushido.
Quali sono state le sue esperienze agonistiche più significative?
Diciamo subito che non sono stato un grande campione, pur essendo stato convocato saltuariamente in Nazionale con la S.K.K.I. e invitato ad alcune gare di prestigio in ambito I.S.I. Ricordo con amarezza un primo posto a squadre al campionato regionale laziale, “negatoci” dall’allora Responsabile Arbitrale Regionale F.I.K.T.E.D.A. indispettitosi per la nostra vittoria (onestissima) sulla sua squadra in semifinale. I referti medici sono ancora a disposizione: Franco Giandinoto, allora in forza alla nostra squadra, riportò la frattura della mandibola nell’incontro definitivo e all’altro atleta venne dato l’ippon del 6 a 4…
Ricordo anche un bellissimo Trofeo Funakoshi di Kumite ad Alatri, vinto grazie a un mio allievo cintura blu di sedici anni che dovetti “gettare nella fossa” come riserva (essendosi infortunato l’ultimo atleta titolare dell’incontro) e che riuscì a vincere contro un quarto dan.
Che significato ha per lei essere un maestro di karate?
È una grande responsabilità e un onore. Occorre essere veramente consapevoli del proprio ruolo e sentire un debito di riconoscenza per questo “dono” ricevuto. Un Maestro di karate deve essere in grado di trasmettere le proprie conoscenze nella maniera più fedele possibile alla tradizione, aggiungendo poi quel quid in più di personale: la sfida più grande è senza dubbio quella di riuscire a trasmettere ai propri allievi, valori e ideali che nella società attuale rischiano di risultare anacronistici e superflui.
Che cosa ci racconta del suo Dojo e dei suoi allievi?
Dopo tanti anni di “vagabondaggio”, con un gruppo di allievi storici ci siamo costituiti nella “Asd Taikyoku Karate Kai” di Roma. Roberto Schicchi – uno tra i miei allievi più vecchi, se non altro come anzianità di pratica, ora istruttore V Dan – condivide con me la responsabilità dell’insegnamento, oltre a un’amicizia che dura da più di quarant’anni. Fra tutti i miei allievi mi sento di menzionare i “Lupi Grigi”, un gruppetto di amici over cinquanta (ma direi pure sessanta), portati alla pratica in età avanzata. In questi ultimi sei anni mi hanno dato tutti grande prova di costanza, dedizione, miglioramento caratteriale, rispetto… in parole più semplici, di comprensione e piena integrazione nel Dojo Kun.
Ho “ascoltato” cosa la malattia stesse cercando di comunicarmi. Ho capito che la malattia è il primo passo verso la guarigione.
C’è un aneddoto nella sua storia di karateka che ha il piacere di condividere con i nostri lettori?
Ci sono due episodi che sono stati formativi, seppure in maniera diversa tra loro, nel mio percorso di karateka. Uno di questi è accaduto ai tempi della S.K.K.I.: ero in trasferta con la Nazionale su una macchina guidata dal M° Miura che percorreva un’interminabile autostrada tedesca. In breve, essendomi riferito al M° Yamada senza utilizzare la qualifica di Maestro, venni “scaricato” in autostrada senza tanti complimenti e nessuna spiegazione. Mi misi a camminare, attonito ma reattivo, vedendo la Renault 5 allontanarsi sempre di più… Ad un certo punto, circa due chilometri più avanti, la macchina si fermò e un compagno di Nazionale scese dall’auto, sbracciandosi per farmi capire che se mi fossi sbrigato mi avrebbero aspettato. Corsi e raggiunsi la macchina, salii e dopo un paio d’ore mi venne spiegato il perché di quel comportamento: accettai con grande sforzo la situazione, ma in quel momento capii che il mio legame già precario con la S.K.K.I. si era definitivamente interrotto.
L’altro episodio, più recente, si è verificato col M° Shirai, a causa di una mia mancanza che generò una grande arrabbiatura al Maestro. La differenza rispetto all’altro episodio sta nel fatto che il M° Shirai, dopo avermi fatto capire dove avevo sbagliato, ha saputo “riabilitarmi” dicendomi oltretutto di non farmi condizionare ulteriormente dall’errore compiuto, di liberarmi e di “mollare la zavorra inutile”. Da questi due esempi simili e, al tempo stesso antitetici, ho imparato molto sull’arte marziale del karate, sul suo insegnamento e sulle qualità umane.
Che cos’è l’Associazione Kids Kicking Cancer Italia Onlus?
È un’Associazione che si occupa dell’insegnamento del Karate Do a bambini gravemente malati in ambito ospedaliero, favorendo e incrementando le potenzialità di guarigione e la capacità di accettazione della malattia.
Può dirci, nella pratica, in cosa consiste la sua attività presso tale Onlus?
Mi reco presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma una volta a settimana, con l’obiettivo di insegnare karate direttamente al letto del paziente nel modo consentito dalla situazione (condizioni di salute ed eventuali impedimenti tecnici presenti). Il metodo utilizzato prevede anche l’insegnamento di tecniche di condizionamento mentale (volte ad aumentare l’accettazione “propositiva” della malattia) e della meditazione che favorisce l’aumento dei mediatori chimici del benessere e auto-terapeutici (endorfine e serotonina), nonché la diminuzione del distress situazionale e lo stimolo del tessuto linfatico gravemente depresso dalla malattia e dalle terapie annesse. Altro capitolo d’insegnamento è la respirazione consapevole, quale strumento di attivazione del tessuto linfatico, di diminuzione del distress situazionale e di sedazione del dolore e della nausea.
Qual è la sua più grande motivazione nello svolgere questa attività?
Credo che nella vita le opportunità si presentino sempre quando siamo pronti a coglierle e, del resto, se un medico esperto e insegnante di karate non sente una grande attrazione per un’attività come questa, credo che una delle due qualifiche di cui sopra non sia stata sufficientemente maturata e acquisita.
Può descrivere il percorso che l’ha portata a svolgere quest’attività? Credo che nella vita nulla sia veramente casuale. Tutto quello che accade a ognuno è il frutto di una serie logica di eventi che si concatenano. Mi sono ammalato a 47 anni di una malattia grave, ma non mortale e fortunatamente non neoplastica, la Sindrome di Meniere [Sintomatologia causata da un aumento della pressione dei fluidi contenuti nel labirinto auricolare dell’orecchio interno, provoca attacchi ricorrenti di sordità, acufeni, vertigini (gravi problemi di equilibrio), nausea, vomito, una sensazione di pressione aumentata all’interno dell’orecchio. Talvolta accompagnata da sudorazione e nistagmo (movimenti ritmici orizzontali a scatti incontrollabili degli occhi). Questi sintomi si presentano come “crisi” episodiche, che possono durare da 20 minuti a 24 ore e più. Si presenta solitamente in adulti con età maggiore 45 anni. N.d.R.], che nel mio caso si è presentata, come raramente accade, in forma “franca” e bilaterale. Le terapie classiche della medicina “ortodossa” oltre a non risolvere il problema, mi hanno ulteriormente danneggiato, essendo volte esclusivamente all’abbattimento dei sintomi. Nel frattempo ho acquisito come logico corollario una ipoacusia (sordità non completa) molto grave. In breve, quando proprio credevo di aver toccato il fondo ho cominciato a mettermi sul serio in discussione anche grazie alla Medicina Antroposofica, iniziando un serio percorso di “dialogo” con la mia malattia, abbandonando la logica del combattimento in me così radicata. Ho “ascoltato” cosa la malattia stesse cercando di comunicarmi. Ho capito che la malattia è il primo passo verso la guarigione che, purtroppo, non sempre può essere completa; ho trasformato la mia quasi sordità anatomica in un modo per cominciare ad “ascoltare” in maniera diversa e ho scoperto nuovi modi di percepire. La mia esistenza, il mio modo di essere e il mio modo di intendere la mia stessa professione sono cambiati. Non appena “risolto” questo problema, l’opportunità di Kids Kicking Cancer Italia Onlus mi si è presentata prepotentemente. Di lì a diventare Martial Art Therapist il passo è stato brevissimo e, sempre per queste leggi imperscrutabili che regolano la nostra esistenza, essendo il precedente responsabile scientifico dimissionario proprio in quei giorni, stante il mio curriculum e background, mi è stato offerto di entrare nel Comitato Tecnico di Kids Kick Cancer con delega per la documentazione scientifica e per collaborare nella formazione degli altri Martial Art Therapists.
Quali sono le modalità di intervento?
Nel Metodo Kids Kicking Cancer il karate viene proposto quale mezzo di stimolazione e potenziamento del temperamento dei bambini gravemente malati e delle loro risorse fisiche gravemente depresse, assieme alle dinamiche mentali proprie del Bushido e del Dojo Kun, alla respirazione consapevole, alla meditazione e al brain coaching direttamente in ospedale, tanto nei reparti quanto nei day hospitals, dove naturalmente lo stato dei bambini è meno compromesso.
Qual è la filosofia di intervento?
Si cerca di adattare i concetti, le dinamiche mentali e la pratica del Budo, del Karate Do e dello Zen allo status psicofisico dei bambini malati, attingendo a piene mani a questi vastissimi patrimoni culturali, troppo spesso sottovalutati in questa società così disumanizzata. Tra questi valori sottolineo in particolare la benevolenza, la compassione, l’onore, il coraggio, la forza di non mollare mai… “Cadere sette volte, rialzarsi otto!”, la sospensione del giudizio dello zen e il rispetto per se stessi.
Quali sono gli effetti di tale attività sulla sua pratica, sull’insegnamento e sulla sua vita di tutti i giorni?
Enormi e importantissimi. Per me è diventata una vera motivazione esistenziale alla quale attingo nei momenti negativi per dare senso alla mia essenza. La mia vita è cambiata, soprattutto negli ultimi due anni e credo che non tornerà mai più quella di prima.
Uno dei miei sogni risposti nel cassetto è quello di creare una nuova competenza per tutti gli insegnanti di Karate Do, quella del Karate Terapeutico.
Quali sono le prospettive future di questo lavoro?
Molto interessanti, stimolanti e attraenti! Ho deciso di “esportare” tutto il background acquisito in questi ultimi dieci anni in un percorso da mettere a disposizione di chiunque voglia cominciare a “dialogare” con il proprio benessere e con le malattie, per mezzo degli ideali e delle dinamiche mentali propri del Bushi Do e del Karate Do, attraverso la meditazione e la respirazione terapeutiche e, perché no, anche attraverso la condivisione della mia esperienza di vita. Uno dei miei sogni risposti nel cassetto è quello di creare una nuova competenza per tutti gli insegnanti di Karate Do, quella del Karate Terapeutico: allo scopo, ho iniziato a tenere delle conferenze con annessi workshop sul Karate terapeutico.
C’è qualche persona che ha il piacere di ricordare e ringraziare in modo particolare a chiusura di questa intervista?
Dovrei e potrei ringraziare tante persone tra cui naturalmente il Maestro Shirai al quale devo praticamente tutto quello che sono in quanto Maestro di Karate. In aggiunta, in questo momento, mi viene in mente una persona in particolare: Luigi Zoia. Con Luigi, che conobbi quarant’anni fa quando era uno degli atleti e Maestri di punta della Fe.S.I.Ka, ci siamo ritrovati da poco grazie a Facebook, ma soprattutto grazie allo scambio epistolare successivo alla lettura del suo libro Cadere sette volte, rialzarsi otto. Libro che ho “divorato” e che ha stimolato in me grandi emozioni, trattando di una storia simile alla mia ed essendomi trovato assolutamente d’accordo con Luigi su moltissimi aspetti della vita, dell’etica, della benevolenza e dell’importanza del Karate Do per la creazione di un mondo migliore. Da questa splendida sinergia è nata una bellissima conferenza comune che abbiamo tenuto a Roma nello scorso mese di novembre cui faranno seguito, certamente, ulteriori sviluppi.
QUI la scheda del primo libro pubblicato dal M° Cembran.