Un giovane pluridecorato atleta Fikta, ora ottimo Maestro.
(In KarateDo n. 8 ott-nov-dic 2007)
Mirko Saffiotti [nasce a Genova nel 1976 ndr] sguardo vivace e sorriso da ragazzino che – con quel pizzico in più di colorata personalità toscana – è cresciuto tra il karate e le mille battaglie della vita. Diplomatosi all’Istituto Professionale per il Turismo, inizia presto a lavorare nei cantieri navali di Viareggio, la città dove attualmente vive. Oltre al karate, di passioni ce ne sarebbero altre, ma il tempo è quello che è, per non dire delle bollette che arrivano puntuali a fine mese… Il sogno più grande? “Vincere alla lotteria!” – risponde Mirko con l’ironia velata di chi non si limita certo a dare solo risposte formali – “non per vivere nello sfarzo, ma per stare in tranquillità, senza dover sempre aspettare con trepidazione l’arrivo dello stipendio…”.
Ma veniamo al karate, una passione che per Mirko, fin da bambino, si è trasformata in una vera e propria “vita parallela” a quella quotidiana.
…qualche allenamento durissimo – nel senso che si andava nello spogliatoio a vomitare dalla fatica per poi tornare immediatamente sul tatami.
Mirko, con chi hai iniziato a praticare?
Ho iniziato nell’ottobre del 1988 a Viareggio, sotto la direzione tecnica del M° Biagi Leonello.
Perché hai scelto il karate?
Si è trattata di una scelta puramente casuale. A causa di un problema congenito al rene, non fui accettato prima da una società sportiva di calcio e poi da una di atletica. All’età di dodici anni conobbi un ragazzo che praticava karate e mi convinse a provare. L’idea mi piacque subito e quando il M° Biagi mi accolse senza problemi, rimasi davvero stupito e felice, anche perché fin da piccolo non perdevo una puntata dei cartoni animati di boxe e judo come Roky Joe, Forza Sugar o Judo Boy…ed ero un grandissimo fan di Antonio Inoki del catch di allora, oltre che dei film di Bruce Lee che sapevo a memoria!
Chi è il tuo attuale maestro?
Da sempre il mio M° Biagi seguiva la direzione tecnica del M° Alessandro Ferrari che, una volta al mese, veniva nella nostra palestra a farci lezione. Dopo che il M° Biagi scelse di aderire a un’altra Federazione, essendo io già nella Nazionale di kata Fikta e grandicello a sufficienza per capire che volevo rimanere nella stessa Federazione, iniziai a seguire il M° Alessandro Ferrari.
Quali sono le qualità che per te deve avere un maestro di Karate?
Sinceramente non saprei, in quanto io non sono affatto un Maestro [lo diventerà nel 2014 ndr], posso dire però cosa, secondo me, si aspetta un atleta da un Maestro di karate.
È senza dubbio un ruolo molto difficile e credo che non tutti abbiano le caratteristiche genetiche adatte. Un bravo maestro deve avere sicuramente un carattere forte, essere onesto, sincero, altruista e molto generoso, duro, ma con estrema dolcezza. Penso che debba avere la capacità di sapersi relazionare con i propri allievi, dando loro la giusta confidenza, senza perdere le redini del ruolo, facendosi rispettare, senza abusare del potere che possiede. Talvolta, alcuni maestri richiedono una venerazione esagerata, riuscendo a ottenere solo un rispetto formale e di circostanza, non accompagnato da un vero sentimento. Nel caso in cui si verifichino dei problemi, mi aspetterei poi che il maestro in questione avesse la sensibilità e la maturità di parlarne con i suoi allievi, sapendoli ascoltare, consigliare e, quando necessario, dare loro spiegazioni chiare, senza nascondersi dietro il suo ruolo, dicendo che non è tenuto a darle!
Quali avvenimenti hanno iniziato a segnare il tuo percorso di karateka?
Dal 1990 in poi è stata una escalation di avvenimenti importanti per la mia formazione di karateka: dal mio primo Campionato Italiano ad Anzio (Nettuno), alla mia prima Coppa Shotokan nel 1993.
Sempre nel 1993 è arrivata la convocazione in Nazionale: ricordo quando, per la prima volta, partii con il treno delle 5 del mattino, rifiutando un passaggio di mio padre in macchina fino a Milano, poiché pensavo non fosse un comportamento degno di una persona matura…
Ero stato convocato per il kata con Scaglia, Grolla, Mariani e Galliani. Dopo qualche allenamento durissimo – nel senso che si andava nello spogliatoio a vomitare dalla fatica per poi tornare immediatamente sul tatami – rimanemmo solo io, Mariani e Galliani. Inizialmente il nostro era un rapporto normale, di sano agonismo, nella fatica estrema non avrei mollato fino a quando anche i miei compagni non lo avessero fatto prima di me. Poi, forse perché abbiamo la stessa età o forse perché abbiamo condiviso tante gioie e dolori, nacque una gran bella amicizia tra me e Roberto Mariani, che continua a tutt’oggi, e si rafforza di anno in anno, tanto da riconoscere in lui un vero grande amico, su cui posso fare affidamento in ogni momento. E sono certo, perché è accaduto, che nel momento del bisogno Roberto c’è.
Nella fatica estrema non avrei mollato fino a quando anche i miei compagni non lo avessero fatto prima di me.
Quali altre persone ti hanno accompagnato in questo lungo percorso di karateka?
Sono state e sono tuttora tantissime le persone importanti: dal mio primo maestro Biagi Leonello, a Carlo e Francesco Betti, i miei primi amici di palestra; dal M° Sandro Ferrari ad Antonio Giacomelli, maestro dello Zoshinkan, un vero e proprio “mito” per tutti noi atleti della Toscana; senza dimenticare tutti i miei attuali compagni di allenamento, nessuno escluso.
Un altro personaggio fondamentale è, senza dubbio, il M° Claudio Ceruti. Seguirlo nei suoi mille chilometri giornalieri in giro per l’Italia: essere a Milano alle 9 del mattino, finire allenamento alle 11 per ripartire alle 11.30 per Borgosesia, iniziare l’allenamento alle 15 e finire alle 17, ripartire per Lucca e iniziare l’allenamento alle 20.30, finire alle 22, mangiare, dormire tre ore, ripartire per Roma per fare allenamento di nuovo alle 9 del mattino… diventa una cosa piuttosto normale con lui!
Importantissima è stata inoltre la possibilità di potermi allenare con il M° Shirai durante il corso del lunedì a Milano. Ricordo benissimo che ero super imbarazzato solo per chiedergli il permesso: il timore di un suo rifiuto era grande, ma ancora più grande fu lo stupore e l’incredulità nel sentirgli rispondere che “certo, potevo allenarmi, ma prima di iscrivermi dovevo provare e valutare se mi sarebbe piaciuto”… Il lunedì successivo ero nella sua palestra e da quel giorno non ho perso un allenamento.
Chi, più di tutti, vorresti ringraziare?
Una persona che più di tutti considero importante è mio padre. Nel mio cammino di karateka mi è sempre stato vicino, ascoltando, interessandosi a tutto, senza mai una parola di troppo, sempre pronto a darmi consigli utilissimi, senza pretendere che poi li seguissi realmente.
Crescendo e dovendo fare i conti veri e propri con la vita, fatta appunto di mutui, scadenze, responsabilità e mille pensieri, mi sono realmente reso conto di quanti sacrifici hanno fatto i miei genitori per permettermi di partecipare a tutti gli allenamenti, le trasferte e i viaggi che il karate mi ha portato a fare. Per questo, non potrò mai ringraziarli a sufficienza!
Quali sono state le tue più importanti esperienze agonistiche?
Innanzitutto la mia prima gara internazionale: i Campionati Europei del 1994, svoltisi a Passau, in Germania. Dovevo fare il kata a squadra con Galliani e Mariani. Ricordo che nei giorni della trasferta il nostro tempo si divideva tra mangiare, dormire e allenarsi. Ci allenavamo due volte al giorno, mattina e pomeriggio; il nostro coach quasi non ci rivolgeva parola, fischiettava solo una canzone che faceva: “ca-te-ri-na oh oh oh oh” e, a quel suono, noi ci guardavamo e ci incamminavamo come in una marcia funebre, preludio alla fatica che ci avrebbe atteso qualche attimo dopo.
Sempre nel 1994 ci fu il Campionato Mondiale in Italia, a Treviso, a soli 18 anni eravamo già campioni europei e, in quell’occasione, diventammo anche campioni mondiali. Tutto era più grande di me: palazzetto gremito di persone, maxi schermo televisivo, intervista alla Rai… È stato stupendo, in finale eravamo così carichi e incoscienti che vincemmo senza sapere cosa realmente stessimo facendo. Ero in gioco e giocai, ma solo ora, ricordando il tutto, mi rendo conto dell’impresa!
Già l’anno successivo ero più cosciente e ricordo che affrontai il Campionato Europeo del 1995 a Middleton, in Inghilterra, e il Campionato Europeo del 1996 in Romania, con maggiore consapevolezza. Purtroppo, per il servizio militare che iniziai subito dopo e per qualche scelta che oggi posso dire sbagliata, diedi le dimissioni dalla Nazionale e il mio posto fu preso da Nazario Moffa. Poi, nel 2000, ritornai in sostituzione di Mariani, rimasto infortunato. Ebbi così una nuova opportunità, in squadra con Galliani e Moffa. Facemmo sia la Coppa Nishiyama, sia il Campionato Europeo; ricordo la trasferta a Mosca con tantissimo piacere: un albergo bellissimo vicino al Moscow River, un panorama stupendo e una gara forte, perché vennero chiamate a gareggiare solo alcune tra le nazioni più valide.
Molto importante è stata anche la mia prima, e unica, gara Eska, svoltasi in Svizzera nel 2003. Una volta entrato nel palazzetto, il clima era notevolmente diverso da quello che si respirava nelle gare Itkf. Mi sentivo addosso una grande responsabilità, perché nell’Itkf non avevo mai perso e lì ero tenuto a confermare i risultati. Rimasi incredulo, quando uscii dalla gara al primo kata. Uno dei miei primi pensieri fu: “Come si fa a dire che l’Eska è la nazionale di serie B ?” Oggi, prima di arrivare ai miei 35 anni di età, mi piacerebbe molto avere l’opportunità di una rivincita!
Una grande soddisfazione, inoltre, è stato il Campionato Italiano di Enbu del 2006, dove vinsi la medaglia d’oro con il mio amico d’infanzia Francesco Betti.
Hai qualche aneddoto da raccontare?
Un episodio particolare accadde in occasione del Campionato Mondiale di Bologna del 2000, nel quale fui convocato solo come riserva. Finita la gara, andai con miei compagni di squadra e il nostro coach alla ricerca di un locale aperto per cenare tutti insieme. Era tardi, ma riuscimmo a trovare un posticino sotto i portici. Una volta entrati ci sedemmo e ordinammo; solo poco dopo ci accorgemmo, imbarazzati, che il locale era frequentato in prevalenza da persone un po’ “bizzarre”. Guardai Moffa per consultarmi sul da farsi e alla fine si decise tutti insieme che, essendo l’unico locale aperto ed essendo affamati, saremmo rimasti. A scelta fatta, io, Mariani e Moffa, gradivamo una meritata birra, ma indugiavamo nell’ordinarla in presenza del nostro coach… Fu una vera e propria liberazione quando proprio lui, solitamente inflessibile, la ordinò per primo, spinto forse dal clima bizzarro del locale o forse perché lo stress della gara si stava finalmente scaricando. In ogni caso, con questo segnale di “via libera” mi alzai e ordinai un giro di cocktail per tutti, seguito subito dopo da Moffa e da Mariani. Fu un momento direi quasi unico, una rara occasione in cui ci sentimmo liberi di passare insieme al coach una serata decisamente “allegra”!
Nel 1994 ci fu il Campionato Mondiale in Italia, a Treviso, a soli 18 anni eravamo già campioni europei e diventammo anche campioni mondiali.
Il karate è per te anche uno stile di vita?
Si, penso proprio che il karate rappresenti uno stile di vita, anche se peccherei di superbia se dicessi che la mia rispecchia esattamente i sani principi di questa disciplina. Posso solo raccontare, quindi, come questa pratica condizioni la mia vita. Sin da piccolo, quando tutti i compagni di classe andavano a una festa di compleanno o uscivano la domenica, io non potevo perché avevo un allenamento, una gara o uno stage. Fin da allora, senza accorgermene, il karate ha condizionato gran parte delle mie scelte.
Credo che chi pratica karate e soprattutto chi persegue risultati agonistici di alto livello, sia condizionato nella propria vita. Se la mia pratica non mi permette di sostenermi nella realtà quotidiana, sono indubbiamente costretto ad avere due vite parallele: quella del lavoro, che mi rende uno stipendio mensile, e quella del karate, con allenamenti, gare, tesseramenti e stage sparsi in tutta Italia. I due mondi si devono inevitabilmente intrecciare, ma per far ciò occorre rinunciare spesso a qualcos’altro della vita “normale”.