Continuiamo a insegnare karate come 50 anni fa, forse, ci vogliono degli aggiornamenti.
(In KarateDo n.37 gen-feb-mar 2015)
C’era una volta il Karate… quello degli anni 60, quello che si presentava per la prima volta in Italia in tutta la sua durezza e inflessibilità. Era il Karate dei “Cento Bassai Dai”, così come racconta il M° Fassi in una sua intervista, un Karate in cui fortificare lo spirito era il filo conduttore di allenamenti continui e massacranti.
A quei tempi era difficile, se non impossibile, anche solo immaginare un gruppo di bambini in un Dojo di Karate. Un luogo completamente inadatto e un metodo di allenamento che era impensabile proporre ai più piccoli. Negli anni 80, quando ho mosso i miei primi passi in questo mondo, erano ancora pochi i bambini ammessi in un Dojo e comunque si parlava di minimo 10 anni di età.
Quelli che erano corsi sperimentali per bambini, svolti spesso in un angolino della palestra, oggi sono i corsi principali, i più numerosi e i più frequentati.
Il karate era sempre quello duro, faticoso, anche se un po’ più “addolcito” nei metodi, e così è continuato a esserlo anche negli anni 90, quando in palestra ci siamo visti arrivare i primi nuovi piccoli ospiti. Una novità accolta inizialmente con qualche dubbio, ma che ha preso nel tempo sempre più piede.
Così, da quei giorni fino a oggi, piccoli gruppi di bambini sono diventati grandi masse di piccoli praticanti, le poche palestre che proponevano questa novità sono diventate tante o quasi tutte. Infine, quelli che erano corsi sperimentali per bambini, svolti spesso in un angolino della palestra, oggi sono i corsi principali, i più numerosi e i più frequentati.
Qual è la cosa strana? È che questo significativo cambiamento di età nella frequentazione dei corsi di karate non ha portato un altrettanto significativo cambiamento nel modo di insegnare. Nonostante si parli di due mondi e di due modi di apprendere totalmente diversi, quello dei bambini e quello degli adulti, continuiamo a proporre anche ai più piccoli lo stesso karate di cinquant’anni fa e a insegnarlo nello stesso modo. Gli stessi programmi, la stessa didattica di insegnamento e, per fare un esempio, lo stesso Taikyoku Shodan – che tutti noi ex principianti adulti abbiamo imparato con non poche difficoltà – è ancora oggi la base da cui dovrebbe partire un bambino di 6-7 anni.
È vero che il karate che insegniamo ai più piccoli è molto più “moderato” nell’approccio, ma è rimasto uguale nei metodi e nei programmi, abbiamo spesso la convinzione di avere di fronte adulti in miniatura e, quindi, crediamo che sia sufficiente ridurre la fatica e l’intensità per adeguare il karate alle loro capacità. Così, per parecchi maestri la ricetta del karate con i bambini diventa un insieme di movimenti un po’ più lenti, posizioni un po’ più alte, allenamenti un po’ più leggeri… insomma, lo stesso karate, ma “un po’ meno di tutto”.
Esercizi più facili danno minore sensazione dello sforzo e aumentano la soglia della motivazione potenziale nei bambini, una prerogativa fondamentale per l’apprendimento.
Non voglio perdermi in consigli su programmi e schemi di allenamento per i quali esistono già centinaia di pagine scritte, ma vorrei mettere in evidenza quello che vedo nel mondo del karate per i bambini e che, a mio avviso, andrebbe cambiato o perlomeno rimesso in discussione.
- Innanzitutto, la difficoltà dei primi kata che insegniamo: un insieme di movimenti difficilissimi da imparare per i più piccoli, perché toccano nello stesso momento tante e troppe abilità motorie, coordinative, di equilibrio, di orientamento nello spazio, che andrebbero allenate separatamente e con i giusti tempi, per esempio con kata che si svolgono lungo un’unica direzione. Esercizi più facili danno minore sensazione dello sforzo e aumentano la soglia della motivazione potenziale nei bambini, una prerogativa fondamentale per l’apprendimento. Se gli esercizi sono troppo difficili cala la motivazione, fino al punto di arrivare alla rinuncia al compito proposto.
Spesso dobbiamo fare delle selezioni quando ci troviamo di fronte a piccoli karateka cintura bianca che vorrebbero fare la loro prima gara, ma che non possono perché hanno qualche difficoltà in più rispetto ad altri.
- Anche l’insegnamento del kumite ai bambini, a mio parere, segue una didattica di insegnamento che sarebbe in parte da rivedere. La mia esperienza nel kumite, così come è stata per tutti noi adulti praticanti, è maturata attraverso il metodo tradizionale che parte da un tipo di combattimento molto statico, quello del gohon, sanbon e kihon ippon kumite, fino ad arrivare a un combattimento più dinamico con il ju ippon kumite e il ju kumite. Un metodo che trovo tanto utile per un adulto, quanto controproducente per un bambino.
Proporre un tipo di kumite così statico per 3/4 anni a bambini che non hanno ancora un minimo di base motoria, provoca in loro il radicamento di schemi altrettanto statici che difficilmente li aiuterà nel passaggio al kumite libero. È indispensabile che già da cintura bianca, sia in allenamento, sia nei programmi di gara, si inizi con l’utilizzo di schemi più dinamici e più liberi. Il kumite per i bambini non deve presentare solo la componente tecnica, ma anche situazioni di variabilità, ad esempio con giochi in coppia sullo studio della distanza, giochi per abituarsi a un adattamento situazionale, esercizi in cui la componente ludica sia di aiuto nell’acquisizione dei fondamenti di distanza, timing, strategia, fantasia e coraggio.
- Anche la figura del maestro deve cambiare. Durante l’allenamento il maestro è capace, per esperienza e preparazione, nel proporre, ma spesso non lo è altrettanto nel trasmettere. Anche qui il karate di tanti anni fa torna a essere protagonista, quello in cui il modo più usuale nel comunicare che una parata non era efficace era quello di “entrare pesantemente” con l’attacco, quello in cui si parlava poco e si imparava più che altro per imitazione.
Ora, durante la lezione si parla maggiormente con i più piccoli e di certo non tiriamo pugni nello stomaco a chi sbaglia una parata, ma anche spiegare non basta, se ci troviamo di fronte a piccoli principianti. Il maestro deve essere un vero artista nell’insegnare ai più piccoli con l’arte del porgere, cioè la capacità di trasmettere e fare diventare entusiasmanti anche le cose ripetute molte volte, e l’arte dell’insegnamento, in cui non basta educare al movimento, ma serve educare attraverso il movimento. Un maestro “artista” non si ferma all’insegnamento della tecnica, ma utilizza questa come strumento per andare ancora più in profondità.
Nei corsi per aspiranti tecnici esistono già argomenti specifici e docenti molto preparati sulla didattica per i più piccoli (cito ad esempio un interessantissimo intervento del Dott. Invernizzi presso l’Università degli Studi di Milano durante il corso Istruttori e Maestri), ma non esistono appuntamenti ripetuti nell’anno per rimanere aggiornati su argomenti così complessi e in continua evoluzione.
Non è più sufficiente impostare ogni stage dedicato ai tecnici esclusivamente sullo studio del karate, escludendo completamente argomenti come la metodologia di insegnamento o l’educazione motoria nelle varie fasce di età.
Rimanendo sul tema del “trasmettere”, ricordo un argomento di cui ho già parlato in altri articoli e che mi sta molto a cuore. Il Karate possiede un patrimonio culturale che nessun’altra disciplina ha, quello descritto nel Dojo Kun, e che non ci preoccupiamo minimamente di trasmettere ai più piccoli, o meglio, lo scriviamo, lo diciamo ad alta voce, ma sempre in modo asettico, senza dedicarvi l’attenzione e la passione che merita un argomento così importante. Ai bambini il Dojo Kun va trasmesso in ogni istante della pratica, va raccontato con la giusta carica emotiva, e infine va messo in pratica durante il gioco e rivissuto di continuo nel corso degli allenamenti attraverso racconti, discussioni, pensieri scritti, disegni ecc., solo in questo modo un bambino può interiorizzare a pieno e fare suoi questi concetti. Raggiunto questo obiettivo già nell’infanzia, non servirà ripeterlo durante il saluto, perché sarà un bagaglio che col tempo diventerà parte del suo modo di essere.
Non è più sufficiente impostare ogni stage dedicato ai tecnici esclusivamente sullo studio del karate, escludendo completamente argomenti come la metodologia di insegnamento o l’educazione motoria nelle varie fasce di età.
Ho voluto dare una mia opinione sul modo in cui proponiamo il karate ai più piccoli e spero si sia colto in questo articolo l’intento di suggerire qualcosa su cui migliorare in futuro, senza di certo criticare tutto ciò che si è fatto fino a oggi.
- Il karate nel nostro tempo deve essere accessibile a tutti, per i più piccoli deve essere marziale, ma anche divertente e deve salvaguardare i soggetti più deboli, cercando di fare tutti vincitori.
- Il modo di comunicare deve cambiare, il linguaggio utilizzato deve essere comprensibile ai bambini.
- I programmi di allenamento devono avvicinarsi il più possibile alle loro competenze e ai loro interessi, affinché ci sia la giusta concentrazione, la motivazione, l’interesse e l’emotività.
Tutto ciò per insegnare ai più giovani non solo la tecnica, ma anche la bellezza del Karate.