Resilienza, protezione e rischio. La fragilità dei bambini è grande!
Ognuno di noi si muove nella vita e cerca di destreggiarsi al meglio possibile fra i propri fattori di rischio e di protezione, contando – a volte in modo implicito e poco consapevole – sulla propria resilienza.
La resilienza, che in meccanica è definita come la capacità di un materiale di resistere a urti improvvisi senza spezzarsi, in psicologia viene tradotta come la capacità individuale di mantenere o ripristinare un discreto livello di adattamento, anche in condizioni di vita particolarmente sfavorevoli e stressanti.
Ogni vita umana si sviluppa e procede in un complesso e dinamico intreccio di fattori di protezione (tutto ciò che viene in aiuto nelle difficoltà della vita e favorisce le competenze; tutto ciò che rafforza l’individuo, consolidando le sue capacità di fronteggiare le avversità e le situazioni emergenti; tutto ciò che “dà una mano”) e di fattori di rischio (tutto ciò che ostacola la persona).
Purtroppo, i fattori di rischio tendono a sommarsi, ma quelli di protezione possono ridurre, anche in modo significativo, gli effetti del rischio, in una molteplicità di livelli: individuale, familiare, nel gruppo dei pari (colleghi, amici, sport, tempo libero), a scuola o nell’ambiente lavorativo, nella comunità.
Ad esempio, a livello individuale i fattori di rischio possono consistere in una storia di disagio psichico, in una patologia cronica, in condizioni di vita di povertà, emarginazione e delinquenza, in un senso di malessere, alienazione o ribellione.
I fattori di protezione possono declinarsi in una base sicura, in una buona autostima, nella percezione di una buona efficacia e competenza, nel senso di avere (prevalentemente) il controllo sui propri eventi di vita, con ottimismo, fiducia in se stessi, capacità di problem solving, abilità intellettuali e così via.
La resilienza è la capacità individuale di mantenere o ripristinare un discreto livello di adattamento, fra fattori di protezione (tutto ciò che viene in aiuto nelle difficoltà della vita) e fattori di rischio (tutto ciò che ostacola la persona).
Vediamo ora come si declina la fragilità bio-psico-sociale nelle varie età della vita.
Forse molti di noi ricordano l’infanzia con tenerezza, quasi con commozione, come un periodo di spensieratezza, una sorta di paradiso perduto. Ma essere bambini è una pesantissima condizione di fragilità!
Esistono patologie e fattori di rischio età-specifici, oltre alla condizione – che ci suonerebbe terribilmente umiliante se tradotta nell’attuale età adulta – di non essere autonomi pressoché in nulla e, di conseguenza, di essere gestiti in tutto e per tutto da altri: un adulto – generalmente la Mamma, ma naturalmente non solo lei! – sceglie come il bambino si deve vestire, cosa deve mangiare, cosa può fare e cosa gli è vietato… tutto questo fa parte dell’educazione e della puericultura, ma con quali emozioni ricordiamo le occasioni in cui venivamo trascinati da qualche parte dove non volevamo andare (dalla zia, in chiesa e così via…), o tutte le volte che ci è stato minacciato il collegio per una marachella che oggi ci può solo far sorridere, per non parlare di quelle terribili verdure che eravamo costretti a ingurgitare, pena non poter guardare la televisione?
D’altra parte, ogni società civile, conscia della fragilità insita nella condizione infantile, ha anche predisposto delle tutele specifiche: in Italia, quelli che un tempo erano orfanotrofi e ora sono tradotti come Case Famiglia o Comunità per Minorenni, oltre ai Servizi di Tutela Minori che si occupano dei casi di particolare disagio.
I bambini hanno dei medici dedicati a loro – i pediatri – e una serie di servizi in cui ci si occupa del loro sviluppo: gli asili nido e le scuole dell’infanzia, per accedere poi al successivo sistema dell’istruzione.
Nel corso dell’infanzia lo sviluppo cognitivo è enorme, ma la forma mentale di un bambino, naturalmente orientata all’egocentrismo, farà sì che il piccolo si senta in colpa per una malattia o una litigata dei genitori, e sia ben conscio della propria fragilità, ad esempio attraverso le molte paure che sperimenta: il buio, i mostri e così via.
Una delle paure con cui forse siamo stati cresciuti e minacciati da bambini è stata quella di essere portati via: dagli zingari, dall’uomo nero, dal vescovo e da altre losche figure risalenti alle tradizioni locali – la Mamma del Sole nell’entroterra sardo, la Cuoca Nera in Polonia e mille altre.
Di recente è stato condotto un esperimento di psicologia infantile – i cui video sono facilmente reperibili in rete. Nonostante i bambini sapessero bene di “non dare retta agli sconosciuti”, in quanto opportunamente addestrati in questo senso dalle proprie madri, che si dichiaravano sicure dell’esito della prova, nella situazione sperimentale bastava un irresistibile stimolo (un delizioso cucciolo di cane) perché tutti – tutti! – se ne andassero via dal parco giochi affidando la propria manina nella mano di uno sconosciuto (in realtà, un collaboratore dello sperimentatore), per “andare a vedere gli altri cuccioli”, senza degnare di uno sguardo la loro madre, allibita e atterrita su una panchina.
Alessandra racconta: «Malgrado le mie speranze e gli insegnamenti profusi in questi sei anni, ho visto mia figlia allontanarsi mano nella mano con un uomo che non conosceva! Solo perché costui aveva un cane! Ho il cuore a pezzi e l’ansia a un milione… può succedere a qualsiasi bambino, in qualsiasi parco giochi, nello spazio di un attimo, e non per un esperimento!»
Forse molti di noi ricordano l’infanzia come un periodo di spensieratezza, ma essere bambini è una pesantissima condizione di fragilità.
Anche i bambini vogliono dire la loro, e sanno esprimersi con molta proprietà se qualcuno – un adulto – dedica loro un ascolto autentico; con quanto affetto ricordiamo quella zia o quell’amico di famiglia che, in modo sincero e realmente partecipe, ci domandava: «A scuola come va? Dopo la scuola, cosa fai di bello? Con cosa ti piace giocare? Hai già letto L’isola del tesoro?».
Sapevamo che era realmente interessato a noi, perché ascoltava le nostre risposte e se le ricordava all’incontro successivo!
Caterina, dieci anni, sembra avere una visione molto lucida – ma anche disarmante e poco lusinghiera – di come certi adulti tendano a sottolineare ed esasperare la condizione di fragilità in cui pongono i bambini: «Mi è capitato di andare in biblioteca o di entrare in un negozio da sola e di sentirmi poco presa sul serio. La bibliotecaria non mi ha considerato se non alla terza volta che le dicevo: “Scusi, per favore…” Quando c’erano la mamma o la nonna con me, mai successo. Una volta sono stata trattata male da un negoziante, perché ero da sola. Ho chiesto un gelato e lui di rimando: “Ma ce li hai i soldi per pagare? Fammeli vedere prima!” E io che stavo per mettermi a piangere li ho tirati fuori di tasca e li ho mostrati… Non ci volevo più tornare, ma il mio babbo è andato su tutte le furie quando gli ho raccontato la cosa; sono tornata accompagnata dai miei genitori e quel signore mi ha trattato bene, tutto sorrisi, con tanto di regalo di una caramella! In pizzeria, con tutti i miei compagni di classe e le maestre, i camerieri sembravano così infastiditi, proprio come se noi fossimo di troppo… eppure nessuno faceva lo stupidino o dava fastidio scorrazzando fra i tavoli; caso mai c’era il giardino per correre. Anche la pizza sembrava meno buona, meno farcita e meno cotta rispetto a quando ero stata in quel locale con la mia famiglia.»
Teniamo conto di queste esperienze… perché i bambini di oggi saranno gli adulti, più o meno arrabbiati e frustrati, di domani e perché i nostri dojo sono affollati prevalentemente di bambini.
Vogliamo prenderli poco sul serio o preferiamo credere in loro, ascoltarli e valorizzarli?