Con che occhi entro nel dojo? Che cosa vedo durante un kata e quale esperienza visiva ho nel kumite?
(In KarateDo n.27 lug-ago-set 2012)
In collaborazione con il M° Riccardo Frare
Se la tensione si nutre d’inconsapevolezza, proponiamo degli spunti di pratica per arricchirci di nuove esperienze. La proposta pratica non è caratterizzata in sé da esercizi nuovi in contrasto con un qualcosa di “vecchio”. Il Karate è uno e la sua tecnica è un fatto oggettivo. Nuovo, o forse sarebbe meglio dire rinnovato, è invece l’approccio al problema:
- Acquisire conoscenze in merito al problema.
- Ascolto di sé in relazione alla tematica.
- Apertura e assoluto non giudizio in merito alla consapevolezza così ottenuta.
- Disponibilità a una pratica basata su amore e dedizione.
Il blocco è una saggia risposta della natura a un determinato avvenimento, spesso legato al passato. Esso ci ha permesso in sostanza di soffrire di meno.
Lo scioglimento della tensione, il cambiamento, non avviene grazie al solo sforzo di volontà. Anzi, spesso lo “sforzo” rinforza la tensione. Un approccio basato sul rispetto di sé, il non-giudizio, crea naturalmente empatia e compassione, apre il cuore e ci mette in una certa disponibilità interiore al cambiamento che, parlando di tensioni, si traduce perciò in scioglimento. Il “come”, quindi, diviene prioritario sul “cosa”. Il sentire prima del fare.
È importante soffermarsi ancora sull’importanza di un assoluto non-giudizio di se stessi e del proprio stato di tensione. Il blocco è una saggia risposta della natura a un determinato avvenimento, spesso legato al passato. Esso ci ha permesso in sostanza di soffrire di meno in particolari circostanze, dove l’unica chance è stata quella di assumere una contrazione. Riconoscere questo, come una saggezza intrinseca in ognuno di noi, permette di accettare che qualche pezzo dell’armatura ora, non ci serve più.
Il diaframma oculare
Il diaframma oculare (fig. 1), insieme ad altri diaframmi, va a comporre una mappa di lettura anatomico/energetica del corpo simile alla visione indiana dei chakra. Se dal punto di vista fisiologico i nostri occhi sono gli stessi da migliaia di anni, l’uso che ne facciamo muta con la cultura. Nella cultura occidentale odierna capita che l’esperienza della visione sia al pari di due telecamere: utili ed efficienti per guidare, leggere su monitor e schermi, tenere sotto controllo cose e persone. Aggiungiamoci l’importante funzione di inibire un’attenta osservazione dei dettagli, data l’immensa mole di stimoli come luci, forme, colori, lettere che, se osservati tutti, ci farebbero impazzire. Tutto ciò aiuta e promuove la visione del mondo in uno stato di tensione nel diaframma oculare. La predominanza viene spostata così dal sentire al pensare.
- Con che occhi entro nel dojo?
- Che cosa guardo o vedo durante un kata?
- Che esperienza di contatto visivo ho durante il kumite? Il guardarsi negli occhi è qualcosa di evitabile con una e-mail o un sms.
- Che grado di scioglimento potrei avere se fossi nato in un’altra cultura o epoca storia? La nostra cultura non è la causa scatenante, ma pone un terreno fertile al non cambiamento. Frase tipica: “Sono tutto in testa oggi!”.
Le tematiche di questa zona di tensione impediscono la discesa di consapevolezza verso il basso: dalla testa al corpo.
Il diaframma, come una barriera (dia-framma) di tensioni muscolari, “separa” la testa, o meglio, la mente dal corpo. Tale impedimento preclude la possibilità di sentire il proprio corpo nelle sensazioni fisiche più sottili quali, ad esempio: postura, equilibrio, appoggio del peso corporeo, allineamento verticale ecc.
Durante un esercizio spesso la difficoltà sarà di confondere la sensazione diretta con il pensare alla sensazione. Sentire il corpo o pensare di sentire il corpo non sono esattamente la stessa cosa.
Elenchiamo ora alcuni esempi legati alla zona in questione, che parte dalla base della nuca (attaccatura dei capelli) fino alle palpebre.
- Guardare spesso per terra o in alto, stando nei propri pensieri.
- Tecniche eseguite con la testa profilata, mancando di frontalità, di una visione binoculare.
- La posizione della testa, quindi lo sguardo pende a destra o a sinistra.
- Strizzare gli occhi o tenerli spalancati.
- Espressioni con gli occhi non contestualizzate con il momento.
- Timore a praticare senza occhiali, oppure bendato o al buio.
Tali difficoltà sono solo una piccola parte dell’originalità individuale con cui si manifesta tale tensione. Difficoltà che possono emergere maggiormente nel lavoro individuale oppure a coppie, con i compagni o nella relazione con il maestro.
Perché vedere è diverso da guardare
Ora abbiamo bisogno di qualcosa di concreto su cui lavorare.
L’occhio, che è una zona molto sensibile in quanto unico prolungamento verso l’esterno del cervello, è ricoperto di fasce muscolari. A queste si unisce per importanza la zona posteriore del collo, soprattutto alla base della nuca, dietro la quale in profondità vi sono i centri visivi nei collicoli superiori del mesencefalo. Essi rielaborano le informazioni tra occhio destro e sinistro, stimolando i riflessi involontari dati dalla visione. Movimenti vicini e improvvisi, che ci spaventano, si ripercuotono alla base della nuca, dove inizia l’attaccatura dei capelli. Tale zona, se ci facciamo caso, risulta tesa e dolorante anche dopo aver sforzato a lungo la vista.
Questi sono semplici spunti di lavoro dove, tramite un approccio di rispetto sopra descritto, è possibile arricchire di esperienze e nuovi vissuti tale zona corporea.
- Pratica di kata e kumite (lentamente!) prima con luce soffusa, poi da bendati.
- Guardare un punto fisso mantenendo uno sguardo morbido e rilassando le palpebre, cercando di ridurne lo sbattere.
- Piccoli giochi atti a sviluppare la visione periferica.
- Sciogliere l’anello nucale tramite semplice pressione dei pollici alla base posteriore (nuca), attaccatura dei capelli.
- Cercare di allungare leggermente il collo verso l’alto.
- Durante la pratica rilassare lo sguardo e la fronte.
- Pratica del semplice Gohon kumite a coppie, lentamente, cercando di non perdere mai il contatto visivo con il compagno.
Sentire il corpo o pensare di sentire il corpo non sono esattamente la stessa cosa.
Il ridere, l’imbarazzo, il perdersi nei pensieri, sono vie di fuga dagli esercizi, affinché si mantenga così lo status quo iniziale.
Domandiamoci: “Durante l’esecuzione ho sentito il corpo? Ho lasciato la possibilità di percepire l’appoggio dei piedi durante l’esecuzione delle tecniche?”.
Una respirazione lenta e profonda sarà il filo conduttore dell’esercizio e sarà anche il campanello d’allarme quando sorge la distrazione.
La pratica del karate è per sua natura intrinseca ed evolutiva, risvegliante e sempre controcultura. Seppur nei secoli abbia subìto influenze legate ai momenti sociopolitici, dalla restaurazione Meiji alle aberrazioni della seconda guerra mondiale, essa in profondità cela sempre la sua vera natura: il risveglio alla realtà che, come ci ricorda lo stesso nome, è Kara ossia Vuota… anche di tensioni.