M° Beppe Perlati: l’alto livello mentale e spirituale di Baleotti si intuisce dall’intervista rilasciata a KarateDo e ne approfitto per fare alcune considerazioni che riguardano il karate oggi e la FIKTA.
(in KarateDo n. 26 apr-mag-giu 2012)
Ho sempre considerato il Maestro Bruno Baleotti il mio primo maestro: probabilmente senza di lui non sarei stato in grado di avvicinare e di comprendere il Maestro Shirai. L’alto livello mentale e spirituale di Baleotti si intuisce dall’intervista rilasciata a Karate Do e ne approfitto per fare alcune considerazioni che riguardano il karate oggi e la FIKTA.
Innanzitutto il M° Baleotti fa riferimento al karate senza dividerlo in karate tradizionale e karate sportivo, sostenendo che esiste solo un karate, il “karate”, e che tutte le altre interpretazioni non sono karate.
Sono completamente d’accordo con lui anche se, per inciso, il termine “karate sportivo” è improprio per indicare il karate disciplinato dalla WKF, perché tutti oggi pratichiamo karate sportivo (anche la tanto rimpianta FE.S.I.KA era la “Federazione Sportiva Italiana Karate”), meglio sarebbe parlare di “karate moderno”.
Il termine karate sportivo non ci deve preoccupare, perché è ovvio che nel 2012 non possiamo organizzare una disciplina finalizzata alla ‘guerra’, ma possiamo utilizzare i principi del budo per l’autodifesa e per l’auto-miglioramento attraverso uno sport chiamato karate.
Nessuno dei vecchi praticanti si è mai posto il problema della distinzione dei vari modi di praticare karate.
Superare i propri limiti, coinvolgere mente, corpo e spirito per conoscere se stessi, sono principi insiti nella pratica tradizionale del karate, ma possono essere attuati in qualsiasi sport.
È stato dagli anni ’80, quando si è cercato di ridurre il karate solamente all’aspetto agonistico, che si è iniziato a parlare di “tradizionale”, per distinguerlo da un karate che aveva come scopo la prestazione atletica, trascurando i principi e i valori insiti nella pratica “tradizionale” della disciplina.
La distinzione è molto delicata e fonte di continue polemiche.
La differenza tra una pratica e l’altra è sottile e si cammina su uno strato di ghiaccio che facilmente si può rompere. Provo a razionalizzare il mio pensiero.
È questione di metodo e di scopo: praticare karate sportivo non deve significare perdere il bagaglio culturale ed etico proprio del karate ma, per non perderlo, occorre praticarlo con uno specifico metodo e avendo chiaro lo scopo.
Ciò vale per tutte le discipline sportive: superare i propri limiti, coinvolgere mente, corpo e spirito per conoscere se stessi, sono principi insiti nella pratica tradizionale del karate, ma possono essere attuati in qualsiasi sport.
Chi lo pratica col metodo e con lo scopo previsto dalla tradizione dovrebbe dare maggiore importanza a ciò che rimane a se stesso al termine di una gara, anziché ai risultati ottenuti.
Tutti i Maestri hanno sempre sottolineato che l’agonismo non è il fine, ma un mezzo per meglio comprendere il karate, per verificare il proprio livello, per meglio conoscere se stessi.
Ho già avuto modo di scrivere tanto tempo fa di un mio allievo che, tornando da un Campionato Europeo, mi ha mostrato con orgoglio la medaglia di bronzo che aveva conquistato. A malincuore ho dovuto fargli notare che quella medaglia aveva poco valore, perché non si allenava da diversi mesi, e che l’aveva ottenuta solamente perché aveva incontrato atleti meno bravi di lui. Fortunatamente ha capito e ora ho il cuore colmo di gioia perché si allena costantemente e seriamente.
Le competizioni sono importantissime perché richiedono da parte dell’agonista un impegno, una disponibilità, un coraggio che lo aiutano nel percorso per conoscere se stesso, ma non è tutto.
Il M° Baleotti ha richiamato più volte l’importanza di “superare i propri limiti”. Secondo me è questo uno degli aspetti più importanti che distinguono il metodo tradizionale dal metodo moderno.
Ho sempre sostenuto che l’allenamento del karate inizia quando hai esaurito tutte le energie, quando il tuo corpo e la tua mente ti supplicano di smettere, quando solo la tua volontà ti spinge a continuare.
Tutti i praticanti che hanno seguito il M° Shirai hanno vissuto questa esperienza, ma spesso non l’hanno trasmessa ai loro allievi, probabilmente per timore di non essere in grado di gestire una situazione stressante e pericolosa.
In questo modo il karate diventa sempre più ‘tiepido’.
Da un po’ di tempo, dopo l’allenamento, sento qualcuno affermare di essere contento, perché si è divertito. Per quanto ne so io, per anni, tutti avevamo il terrore di affrontare gli allenamenti, ma con la volontà superavamo la paura e continuavamo.
Non è vero che oggi i giovani non sono disponibili ai sacrifici ai quali noi ci siamo sottoposti, ne è la prova che tantissimi di loro praticano sport estremi mettendo spesso a repentaglio anche la loro vita.
Siamo noi che dobbiamo richiamare i giovani che hanno “il fuoco nell’anima” e che vogliono mettersi alla prova.
Ciò non deve essere uguale per tutti, perché ognuno ha i propri limiti, fisici, mentali e spirituali, ma ognuno può essere chiamato a fare il 100% delle propire possibilità per superarli.
Ho sempre sostenuto che l’allenamento del karate inizia quando hai esaurito tutte le energie, quando il tuo corpo e la tua mente ti supplicano di smettere, quando solo la tua volontà ti spinge a continuare.
Mi è stato chiesto diverse volte quand’è che l’allievo è in grado di superare il maestro, la mia risposta è: tutte le volte che l’allievo fa il 100% e il suo maestro non lo fa.
Il dan e il tempo di pratica hanno poca importanza, perché è momento per momento che si determina il livello.
Nessuno è in grado di stabilire il valore del 100%, ma ciascuno di noi, nel proprio intimo lo conosce ed è quello che, secondo me, il M° Baleotti intende per “moralità”.
Fare meno del 100% è più comodo e meno pericoloso però “una nave in porto è al sicuro, ma non è per questo che le navi sono state costruite” (Benazir Bhutto).
Il karate è uno solo e ognuno di noi deve applicare ogni giorno, in ogni istante i principi che ha appreso con la pratica trasformando la palestra, la propria casa, ogni luogo, in un Dojo, perché oggi non è possibile riproporre fisicamente e materialmente le strutture e l’ambiente che c’erano centinaia di anni fa, ma nel nostro cuore e nella nostra mente sì, lo possiamo fare.
Anche dal punto di vista fisico l’allenamento può essere effettuato con i principi del Budo. Per esempio, se alleno un maegeri per renderlo una tecnica dirompente, che può uccidere un avversario, seguo le indicazioni del Budo, al contrario se l’obiettivo è solamente arrivare prima, senza l’opportuna qualità della tecnica, eseguo un allenamento lontano dal Budo.
È stato scritto: “Nello sport c’è il tempo, nel Budo c’è l’istante” intendendo per sport l’aspetto agonistico.
Significa che nel Budo l’istante determina la vita o la morte, nella gara si può recuperare e ripetere l’azione senza mettere in gioco la vita.
Può darsi che non si raggiunga mai la qualità di una tecnica efficace e definitiva, ma se quello è l’obiettivo ciò che conta è l’impegno per raggiungerlo, perché rimane sempre prioritario il confronto con se stessi anziché con l’avversario.
Se mi alleno quando ne ho voglia e mi sento bene, non ho ancora compreso il Budo, perché l’avversario non si preoccupa di come sto e per batterlo devo prima vincere me stesso.
Da qui inizia il concetto del “controllo” che rende possibile praticare oggi un’arte marziale senza danneggiare l’avversario, perché così egli non diventa più l’avversario, ma il compagno che aiuta a crescere.
Senza l’efficacia il controllo è inutile!
Se mi alleno sentendo che la tecnica che eseguo è la prima e l’unica che posso fare e che la stessa tecnica, eseguita prima, non esiste più, allora diventa naturale vivere l’istante, qui e ora!. Se, al contrario, eseguo delle ripetizioni solo a livello fisico, non seguo i principi del Budo.
Se mi alleno quando ne ho voglia e mi sento bene, non ho ancora compreso il Budo, perché l’avversario non si preoccupa di come sto e per batterlo devo prima vincere me stesso.
Il karate è uno solo, ma se proprio dobbiamo distinguere tra tradizionale e moderno, tutto dipende dai principi e dallo scopo con i quali si pratica.
Solamente in questo modo potremo aspirare a un miglioramento spirituale, come ci sta indicando da sempre il Maestro Shirai.
Spero che queste considerazioni siano d’aiuto per meglio comprendere la strada, il Do, che stiamo percorrendo; sicuramente lo sono per me perché, da pigro come sono, spesso me ne dimentico.
Permettetemi di ringraziare Baleotti per le emozioni che mi ha fatto provare con la sua intervista, auspicando di rivederlo presto ad allenarsi insieme a noi.