Breve profilo della politica del “Paese chiuso”, il Giappone, fra XVII e XX secolo.
(in Karate Do n.9 gen-feb-mar 2008)
di Piero Pasini
Sakoku significa “Paese chiuso” e indica la politica adottata fin dal Seicento dal Giappone, una politica di isolamento attuata per impedire contatti e scambi costanti con gli stranieri. L’unica eccezione era rappresentata dai mercanti cinesi e olandesi, ai quali era consentito introdurre in Giappone dal continente le mercanzie, al massimo di due o tre navi l’anno. Nonostante questa apparente elasticità, i cinesi erano sempre costretti a lasciare l’arcipelago il più rapidamente possibile per tornare all’altra sponda del Mar Giallo, mentre i paffuti e calcolatori mercanti olandesi, una presenza frequente tanto nel sud-est asiatico quanto nelle umide e dense atmosfere conradiane, dovevano ritirarsi nell’isolotto artificiale di Dejima, nella rada di Nagasaki. Ma mentre i sudditi della casa d’Orange, nella loro “Alcatraz” ante litteram, erano strettamente controllati dai funzionari dello shogun, il contrabbando con la Cina assunse un certo rilievo.
Nel 1641 il sakoku divenne totale. La barriera verso l’esterno divenne non più solo commerciale, ma anche culturale e questo permise il formarsi di una cultura giapponese ancora più raffinata.
Nel 1641 il sakoku divenne totale. La barriera verso l’esterno divenne non più solo commerciale, ma anche culturale e questo permise il formarsi di una cultura giapponese ancora più raffinata.
Dopo il primo secolo di isolamento totale, infatti, alcuni intellettuali (pochi a dire il vero) cominciarono ad acquisire da fonti olandesi conoscenze culturali e tecniche sul mondo esterno. Nel Sette-Ottocento la corrente di questi iniziatori si venne a chiamare rangaku o yogaku, cioè “studi occidentali”, corrente seguita da intellettuali perseguitati e ostacolati. Di contro si sviluppò anche una scuola kangaku, “studi cinesi” che, al contrario, era sostenuta dallo shogun.
Ciò che è più importante, è che un terzo gruppo di intellettuali, Kamo no Chomei, Hirata Atsutane e soprattutto Motoori Norinaga, ridiede vita agli studi giapponesi (wagaku), dedicandosi alla reinterpretazione storico-filologica delle più antiche fonti giapponesi, che risalgono all’inizio del VIII secolo, e che furono compilate col fine di legittimare l’imperatore, attraverso l’asserzione della sua discendenza dalla dea del sole Amaterasu Omikami.
Quando, verso la fine del Settecento la spinta espansionistica di Gran Bretagna, Francia e Russia venne a lambire le coste dell’arcipelago, la classe dominante si strinse inizialmente attorno alla politica isolazionista, ma contemporaneamente, maturò nel suo seno la convinzione che il mantenimento del sakoku avrebbe, così come il regime Tokugawa, messo in pericolo l’indipendenza del paese.
Così, a dispetto di quanto si possa credere, la tesi dell’apertura del paese a influenze esterne venne già ventilata alla fine del XVIII secolo. Alcuni elementi inoltre contribuirono a rafforzare questa linea di pensiero. In primo luogo, anche se le conoscenze sul mondo esterno erano vaghe ed errate, molti giapponesi erano consapevoli dell’arretratezza tecnologica e militare del proprio paese. Inoltre, il governo dello shogun non sembrava più in grado di garantire la sicurezza e la difesa delle isole dell’arcipelago, mostrandosi debole negli affari interni come in quelli esteri. Infine, l’eco della vittoria britannica sull’Impero cinese e della successiva imposizione a Pechino dei “trattati ineguali”, rimbombava nel Giappone senza volersi fermare.
Furono proprio i “trattati ineguali” a essere utilizzati come strumento dai paesi occidentali “avanzati” per imporre forme di colonizzazione ai paesi dell’Asia orientale. Potremmo forse chiamarli “trattati subdoli” dal momento che, nella forma dell’accordo internazionale, sancivano di fatto una colonizzazione economica dell’occidente nei confronti dell’oriente.
Molti giapponesi erano consapevoli dell’arretratezza tecnologica e militare del proprio paese.
Per fare solo un esempio la prima guerra dell’oppio (1839-42), ingaggiata dagli inglesi nei confronti dei cinesi, scaturì dalla timida reazione di Pechino verso un’Inghilterra che aveva incentivato il contrabbando dell’oppio fra India (suo dominio) e Cina, per evitare un passivo sul commercio di tè (di cui gli inglesi sono particolarmente ghiotti… si sa). La guerra si concluse con il trattato di Nanchino, contenente pesanti condizioni. Con questo trattato e con quelli analoghi, imposti da Francia e Usa, iniziò la semicolonizzazione della Cina.
Vicende come queste e come quelle successive alla guerra dell’oppio funsero da ammonimento per lo shogun e, soprattutto, per gli oligarchi Meiji che avviarono un processo di trasformazione capace di garantire l’indipendenza al Giappone. La lezione di real politik dei paesi occidentali fu talmente recepita che lo stesso Giappone, nel 1895, imporrà alla Cina un “trattato ineguale” (Shimonoseki).
Ma questi erano solo i primi accorgimenti. Il Giappone non solo non voleva rimanere vittima dei raggiri occidentali, ma era fermamente deciso a far rivalere il proprio potere imperiale.