“Siyo!” Vi saluto in lingua cherokee per raccontarvi ancora della mia esperienza nell’Indian Country
(in Karate Do n. 10 apr-mag-giu 2008)
Siyo! Con questo saluto nella lingua dei cherokee, con i quali nella puntata precedente ci eravamo lasciati sulle montagne della Carolina del Nord, eccomi a riprendere il discorso sugli indiani d’America e, più precisamente, su taluni aspetti della loro cultura ed etica tradizionale che, a mio parere, presentano interessanti paralleli con analoghi concetti della filosofia del karate, inteso anch’esso nella sua essenza tradizionale.
La mia non vuole essere una lettura forzata di due realtà che appartengono storicamente e geograficamente a mondi assai diversi e distanti tra loro, né tanto meno proporsi come un saggio di velata natura etnografico-comparativa. Le mie riflessioni, invece, maturate in un lungo tirocinio in Indian Country e in un’altrettanta prolungata appartenenza alla grande famiglia del karate Shotokan, desiderano essere semplicemente spunto per eventuali approfondimenti, non solo in merito agli stessi indiani, ma anche al significato che ciascuno di noi vuole dare alla propria esperienza nel karate (al di là del suo aspetto più propriamente sportivo o ricreativo-pedagogico).
Scrivo queste righe dalla mia modesta dimora di mattoni rossi immersa nel verde lussureggiante della Virginia, ove sono rientrato dopo la mia recente permanenza in Italia, occasione in cui, col M° Michielan, è nata l’idea di dialogare sull’improbabile, ma non impossibile, abbinamento di “indiani” e “karate”.
Consapevole della diversa realtà in cui adesso mi ritrovo, non posso fare a meno di riflettere sul fatto che da una trentina d’anni a questa parte la cultura dei nativi nordamericani ha condizionato in buona misura la mia quotidianità, in ambito professionale ma, soprattutto, nel contesto più profondo e significativo dei legami di amicizia e di parentela adottiva che, parallelamente, si sono venuti a creare.
Anche la locale toponomastica mi ricorda che quel che è oggi il Commonwealth della Virginia, era una volta densamente popolato da tribù indiane di lingua algonchina e irochese che se ne contendevano il controllo. I loro antichi idiomi riecheggiano nei toponimi della zona. La via dove abito si chiama Shenandoah, come la famosa valle e il fiume omonimo e pare si riferiscano a una mitologica “figlia delle stelle”. A poca distanza scorre maestoso il fiume Potomac che, nei pressi della storica fattoria di Mount Vernon (ove visse George Washington), crea un’ansa grande come un lago. Il nome indiano si riferisce probabilmente a un centro di scambio.
In epoca precolombiana i nativi della regione si servivano di questo e altri fiumi come arterie di comunicazione e qui si radunavano periodicamente le tribù del nord e del sud per commerciare, sottoscrivere accordi, scambiarsi prigionieri e, nel periodo storico della supremazia irochese, per versare tributi di wampum a questi ultimi. Sempre qui vicino, nel corso di recenti scavi archeologici, è stato rinvenuto un insediamento preistorico cosiddetto “paleoindiano” risalente ad almeno 12.000 anni fa.
La mia non vuole essere una lettura forzata di due realtà che appartengono storicamente e geograficamente a mondi assai diversi e distanti tra loro, né tanto meno proporsi come un saggio di velata natura etnografico-comparativa.
Fino a pochi decenni fa era impopolare per i pochi discendenti, perlopiù meticci (causa i matrimoni misti con bianchi e neri) delle tribù storiche delle Virginia (stato notoriamente sudista), identificarsi apertamente con il proprio retaggio indiano.
Oggi invece, grazie anche alle recenti celebrazioni per il 4° centenario del primo insediamento inglese a Jamestown, nome legato a quello più famoso della giovane principessa algonchina Pocahontas (quella vera, non di Disney), le tribù dei Rappahannock, Chickahominy, Pamunkey, Mattaponi e altre ancora, stanno vivendo un periodo di ripresa demografica e di riscoperta della loro identità, tradizioni e lingua. Rappresentano un piccolo tassello del mosaico che, tra Stati Uniti e Canada, riflette le diverse realtà dei circa 5 milioni di nativi americani (dai più diversi quozienti di “sangue indiano”), membri a loro volta di più di 500 comunità tribali negli States (riconosciute ufficialmente dal governo federale o dai singoli stati, come nel caso della Virginia), e di oltre 600 cosiddette First Nations in Canada. Per la stragrande maggioranza degli indiani il passato, o meglio le loro tradizioni, sono punto di riferimento, identità, continuità e ispirazione nella spesso caotica e contraddittoria realtà contemporanea.
Quanto sopra, unitamente ai miei soggiorni periodici nelle riserve, ai numerosi rapporti interpersonali e alla mia partecipazione al progetto enciclopedico dell’Handbook of North American Indians, ha definito in gran parte la mia esperienza di vita negli States. Esperienza per molti versi inusuale, legata non tanto all’immagine mediatica, tecnologico-scientifica dell’America, quanto a quella considerata erroneamente da molti “marginale e folklorica” delle comunità indiane, dove invece è appunto il richiamo e l’osservanza degli antichi valori tradizionali a integrare gli aspetti positivi della modernità e a controbilanciarne quelli più negativi. Era naturale quindi che anche la mia identità di karateka venisse coinvolta in questa mia insolita, oramai decennale, esperienza.
Fortunatamente, la mia imperfetta conoscenza degli indiani nordamericani, della loro storia e della loro complessa realtà contemporanea, ha molto beneficiato della mia seppur incostante pratica del karate. Allo stesso modo, la mia comprensione dei precetti base del karate tradizionale, specificamente quelli enunciati da Gichin Funakoshi (i cui studi di filosofia classica cinese e giapponese, oltre a poesia e calligrafia, indubbiamente ne influenzarono l’apprendimento e l’insegnamento del karate), ha trovato riscontri significativi nelle mie esperienze con e tra gli indiani, che altrimenti poco o nulla avrebbero avuto a che vedere con la “via della mano vuota”.
I nostri maestri c’insegnano che la pratica del karate non si limita solo alle ore più o meno lunghe trascorse nel dojo, sotto la guida di insegnanti e istruttori qualificati. A questo aspetto primario, fondamentale, della formazione psico-fisica e direi anche “spirituale” di ogni serio karateka, deve affiancarsi la consapevolezza che il miglioramento tecnico procede pari passo a una più approfondita riflessione sulla filosofia stessa del karate do.
Nella connessione tra la componente fisica, la ricerca dell’esecuzione corretta del movimento espresso in tecnica efficace, da un lato, e il miglioramento e l’arricchimento interiori, dall’altro, nella dualità complementare tra ciò che si fa in palestra e ciò che si aspira a essere nell’ordinaria vita quotidiana, ho trovato un modello e una chiave di lettura a cui ispirarmi nel mio lavoro e nelle mie variegate esperienze in Indian Country.
Non è né retorica etnografica né anacronismo folklorico, il richiamo costante dei leader spirituali degli indiani d’America all’armonia, all’equilibrio, alla tradizione, al rispetto verso il mondo naturale, alla reciprocità, all’equità. Un amico indiano, molto legato alle proprie tradizioni e uno dei pochi indiani praticanti di karate Shotokan che abbia conosciuto, equiparava il concetto nativoamericano di “red road” (il cammino che ogni indiano è chiamato a seguire secondo gli insegnamenti della propria cultura tribale) alla “via del karate”, che per lui venivano a coincidere. Usando un’espressione che dice molto a chi la sa interpretare correttamente, mi diceva che, fondamentalmente, per poterle seguire “your heart must be in the right place”. È cioè necessario che il cuore sia al posto giusto e con ciò non intendeva riferirsi ovviamente a questioni anatomiche.
Per la stragrande maggioranza degli indiani il passato, o meglio le loro tradizioni, sono punto di riferimento, identità, continuità e ispirazione nella spesso caotica e contraddittoria realtà contemporanea.
I maestri che si rifanno al karate tradizionale sottolineano che la disciplina del karate, nata come metodo di difesa personale (aspetto peraltro tuttora integrante) è anche, e forse soprattutto, un mezzo che ha come fine ultimo il perfezionamento del carattere dei suoi praticanti. Ciò avviene attraverso l’allenamento assiduo e costante delle tecniche stesse e, parallelamente, con la messa in pratica dei principi guida, cosiddetti “morali”, della filosofia del karate-do nella totalità delle nostre esperienze.
Se tale affermazione, come i richiami cui sopra, può sembrare a qualcuno troppo idealista e retorica, è perché oggi più di ieri l’apparenza ha assunto maggior importanza della sostanza, il superfluo ha esautorato il necessario e, parimenti, la presunzione e l’ignoranza hanno spesso il sopravvento sulla riflessione e la conoscenza: confusione, rumore e artificiosità al posto di chiarezza, silenzio e semplicità.
Gli indiani hopi, che risiedono tuttora nei loro antichi villaggi arroccati sulle mesas dell’Arizona, parlano di koyaniskatzi, “a world out of bance”, un mondo non più bilanciato, nel quale pericolosamente sono stati sovvertiti gli equilibri fondamentali. Migliorarsi nel carattere, perseguire la via della rettitudine, dare il meglio di sé, rispettare il prossimo, controllare i propri impulsi aggressivi (intesi anche come sopraffazione egoistica, arroganza e cupidigia), sono le controparti etiche all’avanzamento e alla maturazione tecnica nel difficile cammino del karateka. Che poi simili ideali non vengano necessariamente osservati, è un riflesso negativo sull’individuo, non sul valore intrinseco e la validità dell’ideale stesso.
La visione tradizionale nativoamericana dell’essere e del divenire è concepita non come una linea retta, bensì come una spirale (il ricorrere periodico dei cicli naturali e delle cerimonie annuali, il rinnovamento generazionale, la sfericità concentrica delle relazioni, i principi di equità e reciprocità) che si estende e si adegua a sua volta al trascorrere del tempo, mirando a mantenere una condizione di equilibrio che si riflette poi nel concetto di armonia a cui accennavamo in merito agli indiani cherokee.
Il percorso del karateka tradizionale può essere anch’esso concepito come una spirale: pensiamo alla ripetizione delle tecniche fondamentali, dei kata, del kumite, ma anche la ritualità del dojo, le relazioni personali che in esso si creano, il rapporto tra insegnate e allievo e tra allievi, il richiamo costante alla tradizione pur nella ricerca del rinnovamento tecnico. Se venisse a mancare la componente interiore, vorrei dire ancora una volta “spirituale”, il solo aspetto fisico, il tirare calci e pugni finirebbe molto probabilmente con lo stancare. E infatti sono molti quelli che prima o poi lasciano il dojo. Il karate, invece, dovrebbe accompagnarci tutta la vita, richiamandoci all’esempio della grande generazione di maestri formatisi nella JKA e dei loro allievi occidentali, che sono oggi impegnati nel difficile compito di portarne avanti gli insegnamenti.
Nella connessione tra la componente fisica, la ricerca dell’esecuzione corretta del movimento espresso in tecnica efficace, da un lato, e il miglioramento e l’arricchimento interiori, dall’altro, nella dualità complementare tra ciò che si fa in palestra e ciò che si aspira a essere nell’ordinaria vita quotidiana, ho trovato un modello e una chiave di lettura a cui ispirarmi.
Devo ricordare ai lettori che nelle palestre americane dove si pratica il karate Shotokan (sempre di matrice JKA), pur a prescindere dalle diverse federazioni di appartenenza, la recita del Dojo Kun (in lingua inglese) costituisce parte integrante della ritualità che, unitamente alla pausa meditativa in seiza e agli inchini, chiude ogni allenamento.
Al mio arrivo in America oltre trent’anni fa dissi ingenuamente a un amico karateka che gli avrei insegnato io alcuni kata superiori che lui ancora non conosceva. Per tutta risposta egli mi diede un foglio stampato con il testo giapponese nella calligrafia del M° Okazaki e relativa interpretazione sintetica in inglese del Dojo Kun, invitandomi a “praticarlo” come se fosse stato uno dei kata di cui io troppo presuntuosamente mi consideravo “esperto”. Protetto in una busta di plastica, quel foglio mi ha accompagnato da allora nei miei viaggi in Indian Country e ho poi capito cosa intendesse dire quel mio amico karateka.
Come vedremo nella prossima puntata, dove parleremo della capanna sudatoria, della sun dance, del lacrosse e dello spirito guerriero, quella messa in pratica mi ha aiutato ad affrontare situazioni anche difficili, a confrontarmi con debolezze, dubbi e timori, ma a creare anche legami duraturi e a capire meglio un popolo che si riconosce ancora nei valori della tradizione.
Sgi.*
*(“grazie” in cherokee, si pronuncia “sghi”)