Le 6 motivazioni alla base di un adulto che pratica Karate sono ricche e articolate.
(in KarateDo n. 21 gen-feb-mar 2011)
ADULTI
Nel proprio Maestro un adulto è meno portato a vedere una figura d’autorità o un genitore vicario, come accade per i più piccoli, ma è più propenso a viverlo come un amico. D’altra parte il Maestro, con un praticante adulto – che teoricamente ha acquisito una certa maturità intellettuale – può bypassare tutta quella faticosa e frustrante attività per attrarre e conservare la concentrazione e l’attenzione degli allievi più giovani, o per ottenere il rispetto e la disciplina, all’insegna di un rapporto che, teoricamente, a prescindere dalle soggettività individuali, può essere più paritario – almeno al di fuori del dojo.
Chi inizia a praticare il Karate da adulto, magari già in un’età che è al di fuori della categoria seniores, probabilmente, oltre a tiepide o inesistenti ambizioni agonistiche, tende ad abbracciare meno l’idea del conseguimento della perfezione tecnica, non è mosso da competizione contro l’avversario, ma da altre motivazioni, come scaricare lo stress accumulato durante la giornata. In realtà un grosso problema è costituito, per la pratica e per ogni contesto di svago, dalla mancanza di tempo e dal fatto che “quel poco che si ha è il peggiore della giornata, dopo il lavoro, al termine di una giornata è difficile applicarsi con la giusta energia” (M° Varone) e qualche volta il condizionamento dato da impegni lavorativi e familiari si fa sentire.
Per le donne principianti il Karate può essere vissuto come l’apprendimento di un’efficace tecnica di autodifesa, in un contesto sociale sempre più percepito come violento e pericoloso. Lo stesso vale anche per qualche uomo che sia stato aggredito e malmenato.
Motivazioni
La motivazione relativa all’apprendimento dell’autodifesa o di uno sport come un altro, così come le intenzioni relative a un generico fitness, sono destinate, naturalmente, a durare poco, per tramutarsi in motivazioni più vicine al Dojokun o in abbandono dell’attività. Dopo la prima lezione è già chiaro che l’aerobica o altre mode non c’entrano nulla: si suda e si fatica davvero…
Per chi inizia da adulto, o per chi da adulto pratica il Karate, con una personalità sempre in evoluzione e in via di adeguato consolidamento, ma comunque costituita, è facile rilevare maggiore costanza nel livello di motivazione, minori scissioni fra picchi di entusiasmo e di noia, rispetto al gruppo dei ragazzini. Un adulto sarà in grado di ragionare e riflettere su quanto viene chiesto di fare, sul significato di una singola tecnica o di un rito, ad esempio quello del saluto, e sarà in grado di comprendere e fare proprio il concetto di vuoto mentale.
Dal punto di vista fisico, un adulto non avrà problemi nella coordinazione motoria e nella potenza, ma forse nell’elasticità, in funzione degli anni, dello stile di vita, dei traumi fisici pregressi ecc.
Giulia Cavalli, nella sua ricerca sulla motivazione, si è occupata di obiettivi di padronanza e di prestazione. Nel Karate essi tendono a coincidere: se padroneggio la tecnica, la mia performance è adeguata e così via. Sarà l’atleta a interrogarsi in modo introspettivo rispetto alle motivazioni intrinseche ed estrinseche della sua attività, su quanto incidano la motivazione al successo e la paura del fallimento, con i meccanismi conseguenti di impotenza appresa e self-handicapping.
Nell’elaborato presentato al 4th International Symposium on Traditional Karate, Budo Arts and Combat Sports, ella ha mostrato i risultati emersi dalla somministrazione del questionario “Perché pratico Karate”, considerando 6 tipi di motivazione:
- estrinseca
- epistemica (bisogno di conoscenza)
- benessere psicofisico
- socialità
- acquisizione di abilità nelle tecniche
- rilassarsi
L’analisi statistica ANOVA ha dimostrato che un’età maggiore e un maggior numero di anni di pratica sono inversamente proporzionali a quelle motivazioni lontane dal “DO” (1, 2 e 4). L’applicazione di un altro strumento, con cui i Maestri possono valutare la motivazione degli allievi, indica che i praticanti nella fascia d’età compresa fra 11 e 18 anni sarebbero i meno motivati.
Con l’età adulta la motivazione tende a consolidarsi, a essere più ricca e articolata. Per gli atleti adulti è possibile applicare alcune tecniche che risulterebbero poco efficaci con praticanti più giovani: l’allenamento con l’impiego dell’immaginazione motoria (visualizzare una tecnica prima di realizzarla) può influenzare le capacità muscolari, la forza e la potenza, secondo quanto teorizzato dal gruppo senese di Fontani et al.
Si è parlato di bambini e di adolescenti problematici. Ovviamente anche un adulto in stato di emarginazione o devianza potrà solo trarre beneficio dalla pratica del Karate, tuttavia è molto difficile che ci si avvicini! La mia ipotesi, esposta altrove, propone l’insegnamento del Karate – come pratica sportiva e come disciplina filosofica e marziale, a tossicodipendenti in fase di riabilitazione e l’idea si potrebbe estendere ad altri gruppi di persone con disagio sociale.
Chi è e cosa fa un MAESTRO
Essere insegnanti, di materie curricolari scolastiche o di Karate, richiede molto tirocinio sul campo, ossia la crescita personale e professionale attraverso prove, errori e autocorrezioni.
Contarelli (2005) sottolinea il potere e quindi la responsabilità che ha il Maestro sugli allievi, perché essi siano persone con senso critico, curiosità, entusiasmo, senza frustrazione. Il Maestro insegna quella sublimazione della fatica che risolve molti problemi personali all’esterno del dojo. D’altra parte gli allievi non sono così fragili da risentire troppo pesantemente degli errori commessi in buona fede da un Maestro.
I modelli culturali che in epoche e regioni diverse hanno teorizzato la figura del maestro – dalla pedagogia dell’antichità a quella moderna – parlano di insegnante come sciamano depositario di segreti, precettore che si interpone fra i genitori ed il figlio, vero padre, tecnico dell’istruzione, funzionario statale.
Oggi si tende a preferire l’immagine dell’insegnante come educatore in senso olistico. Di fatto l’insegnante si pone, anche involontariamente e inconsciamente, come un genitore vicario e una figura d’autorità del codice paterno – nel senso di colui che insegna regole e le fa rispettare. È un caregiver nel senso globale del prendersi cura – della crescita sportiva e della personalità dell’allievo, non solo bambino o adolescente.
Chi insegna Karate spesso nella vita lavorativa fa tutt’altro che l’insegnante e poco o nulla sa di psicologia o pedagogia, così generalmente ripropone il Karate per com’è stato insegnato a lui una ventina o più di anni prima. Questa puntualizzazione, beninteso, non intende essere una critica, anzi. In una disciplina in cui la tradizione è molto importante e l’innovazione è malvista, quello che bisogna spiegare e trasmettere, al di là delle tecniche, è già tutto scritto nel Dojokun di Funakoshi.
Ogni Maestro insegna a modo suo, con parole sue, con un linguaggio proposto in diverse versioni, perché il messaggio raggiunga tutti, con esempi personali e metafore, modulando la propria tecnica di insegnamento sulla base della propria personalità, di quanto ha appreso dai suoi propri Maestri, di quanto si ricorda – e si accetta – di com’era lui all’età degli attuali alunni. È importante che il Maestro non cessi mai di lavorare su di sé, sulla propria autoanalisi, per comprendere gli allievi a lui affidati. Gli potrà capitare di insegnare, ad esempio, a un ragazzino che troverà particolarmente “tirasberle”. Sarà utile alla sua crescita personale, di uomo oltre che di Maestro, cercare dentro di sé dei motivi a questa sorta di antipatia, chiedendosi da un semplice “Perché?” a un più raffinato “Cosa sto proiettando? Cosa mi infastidisce tanto? Forse lo vedo comportarsi con poca serietà e fare quello che io non mi sarei mai permesso di fare, come ridere durante l’allenamento o rispondere?”.
In questo tipo di insegnamento, la trasmissione del sapere non viene mediata dalla parola scritta; la comunicazione e spiegazione può essere soltanto orale e “visiva”, il Maestro esegue personalmente le tecniche che vuole insegnare e il praticante finisce per impararle, in prima istanza, per imitazione. Se il programma tecnico è immodificabile, il Maestro può elaborarlo tenendo conto dei punti di risorsa e di limite dei praticanti che segue, attento a ognuno di essi, anche al loro stato psicologico, per approvare l’esecuzione tecnica e l’atteggiamento mentale o per correggerne gli errori. Oltre l’obiettivo motorio – tecnico terrà in considerazione la filosofia di vita (il “Do”), la concezione del mondo e dell’esistenza, gli elementi personologici con cui il karateka deve venire a patti, se è vero che il Karate-do non è una ginnastica, ma la via per migliorare se stessi.
Al di là dell’imprescindibile conoscenza specifica della materia, subentra l’infinito campo delle variabili soggettive nell’insegnamento proposto: “com’è” il Maestro, come si pone, come assiste e motiva i praticanti: quanto entusiasmo e quanto amore si percepisce in ciò che trasmette (M.o Lombardi). Farà questo con ognuno degli allievi – apportando piccole variazioni sulla base delle caratteristiche peculiari di quell’allievo (personalità, risorse, limiti, temperamento) e con il gruppo nel suo complesso, anche quando essere gentile e paziente può risultare difficoltoso. In tutto questo non si dimentichi il peso della comunicazione non verbale, a cui i bambini – e molti adulti – sono sensibili: uno sguardo, un atteggiamento, una sfumatura nel tono di voce, a volte incidono più delle parole.
Il Maestro deve (dovrebbe, sarebbe bello se riuscisse a…) creare un gruppo unito, coeso, anche amicale, con attività al di fuori della palestra. Lo pongo come utopia perché ci sono tante anime in gioco, infinite Variabili personali intervenienti, persino alcuni genitori che contestano la posizione in cui il Maestro si pone in palestra e non capiscono che da quell’angolo di visuale egli riesce a vedere tutti gli allievi, vicini e lontani. Anche con un gruppo di adulti è importante – e difficile – capire il codice comunicazionale preferenziale di ognuno. Da qui deriva l’importanza di essere accettato; non sempre campione agonistico significa anche buon Maestro, e comunque essere gradito a tutto il gruppo nel suo complesso è pressoché impossibile.
Se consideriamo il Maestro nel senso socratico del termine, il suo sapere è riconosciuto dagli altri (il Dan conseguito, il passato agonistico, l’esempio durante le lezioni). Ma egli definisce se stesso “Colui che sa di non sapere”, ed è sempre impegnato in un lavoro di ricerca personale, cosciente della necessità di continuare ad apprendere. Con qualche idealizzazione diventa guru, maestro di vita e/o esperto allenatore di atleti, talent scout. Ad ogni modo, è colui che riesce ad amare, riconoscere, valorizzare, contenere i limiti e le risorse di ogni praticante. È l’allievo che sceglie il Maestro, ma non vale il viceversa.