L’irripetibile occasione di scambiare quattro chiacchiere con il Maestro Hiroshi Shirai e di rivolgergli qualche domanda alla quale in altre circostanze si sarebbe forse sottratto.
Sono stato allievo del Maestro Hiroshi Shirai per vent’anni, dal 1986 al 2006, e mi sembra impossibile che se ne sia andato. Quando passo in scooter per via Piacenza mi aspetto ancora di vederlo uscire dal portone del numero 8, dove ha abitato per più di 50 anni, dopo il suo matrimonio con Adelangela Zoja.
“Ricordo che le gare per me non erano solitamente un problema.”
Per quanto mi allenassi con costanza e impegno sotto la sua guida, nel suo dojo di via Friuli e prima nella palestra di via Tolstoi, non sono mai stato un suo “uchi-deshi” (allievo interno) e forse anche per questo sono sempre stato trattato con la cortesia che si riserva a un ospite, senza quella familiarità e rudezza con cui il Maestro si rivolgeva e correggeva i suoi allievi più stretti.
Nonostante questo, data la lunga familiarità (nata nel 1971), la vicinanza geografica tra le nostre abitazioni e il fatto che la mia allieva e compagna di allora insegnava ginnastica nella palestra di via Piacenza e aveva fatto parte della Nazionale di kata da lui allenata, campione d’Europa nel 1981, mi è capitato spesso di incontrarlo anche fuori dal dojo.
Non parlo qui dei momenti cruciali della mia esistenza in cui il Maestro mi è stato vicino, anche perché ritengo siano fatti che devono rimanere privati, ma degli incontri occasionali, spesso imprevisti, ma sempre piacevoli: ad esempio al supermercato di via Ripamonti, dove lo incontravo intento a spingere il carrello verso le casse “come un comune mortale”, o dal parrucchiere di via Piacenza, di cui eravamo entrambi clienti, e che lo conosceva da una vita e raccontava aneddoti curiosi sui primi tempi del Maestro a Milano.
Che fosse destino o semplice coincidenza, quel pomeriggio di febbraio mi ero appena accomodato sulla poltrona in attesa di un deciso taglio ai miei capelli troppo lunghi e spettinati, quando il maestro Shirai è entrato o, per meglio dire, ha fatto irruzione nella bottega con la determinazione che era una sua caratteristica anche nelle cose di tutti i giorni. L’ho salutato con rispetto (anche dal parrucchiere era pur sempre il Maestro) e il barbiere l’ha fatto sedere nella poltrona alla mia sinistra. Mi è venuto spontaneo “farlo passare davanti”, offerta che il maestro ha accettato di buon grado, ringraziandomi e chiedendomi notizie su mio figlio Giulio, che aveva appena superato l’esame di secondo Dan.
“Peccato, Sergio, che al giorno d’oggi nelle gare quasi nessuno usi più maegeri.”
Ripensandoci, quella mia gentilezza aveva forse un secondo fine: dato che il Maestro è sempre stato piuttosto schivo e riluttante a concedere interviste, quella mezz’oretta che avremmo passato insieme mi avrebbe concesso l’irripetibile occasione di scambiare quattro chiacchiere con lui e di rivolgergli qualche domanda alla quale in altre circostanze si sarebbe forse sottratto. Di fatto, l’unica domanda che gli rivolsi riguardava quel famosissimo maegeri grazie al quale nel 1962 aveva battuto il maestro Enoeda, laureandosi campione del Giappone. Gli chiesi se la tecnica gli fosse uscita spontanea o se fosse per così dire “premeditata”.
Il Maestro non si mostrò infastidito dalla mia curiosità, ma si lasciò trasportare dall’onda dei ricordi.
Mi disse più o meno queste parole: “Ricordo che le gare per me non erano solitamente un problema, ma quando combattevo con Kanazawa Sensei o Enoeda, sapevo che avrei dovuto fare qualcosa di speciale per vincere. Studiai strategia e tattica, come e in che modo avrei dovuto affrontarli, quale tecnica usare, quando usarla (sorride), come cogliere il giusto momento. Dovevo sempre studiare la tattica, perché entrambi erano più anziani di me. Penso che Kanazawa Sensei avesse quattro o cinque anni d’esperienza più di me. Enoeda ne aveva due. Io ero molto giovane. Per la finale con Enoeda studiai a fondo il maegeri, che lui aveva usato in precedenza contro di me, e che avevo approfondito per il mio esame di istruttore Jka. Quando mi sembrò il momento, calciai. Enoeda sensei vide e parò la tecnica, ma con un attimo di ritardo come si vede nella foto, e Nakayama Sensei mi diede il punto. L’anno dopo però Enoeda mi batté e diventò lui campione del Giappone”.
Il maestro Shirai si era mosso sulla sedia del barbiere mentre mi raccontava il suo “duello” e il parrucchiere aveva atteso pazientemente la fine della storia per iniziare il suo lavoro con lui. Pensai di agevolarlo e non gli rivolsi altre domande, mentre il maestro appariva assorto nei ricordi. Quando si alzò per andarsene, aggiunse solo qualche parola: “Peccato, Sergio, che al giorno d’oggi nelle gare quasi nessuno usi più maegeri. Ci vuole tanto tempo per allenarlo, al makiwara e al sacco, e la gente oggi non ha più pazienza. I miei primi allievi, Capuana e Fugazza, usavano molto maegeri. Ci vuole tanta tecnica, adesso tutti usano i calci circolari, ma io non avevo le anche tanto sciolte e allora… maegeri! Arrivederci, Sergio”.