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La rivoluzione Rock in Giappone

La rivoluzione Rock in Giappone
Kenji Endo

Dedicato alla musica di metà anni Sessanta, cioè nello stesso periodo in cui il Karate arrivò in Europa.

Più o meno quattro anni fa, di questi tempi, scrissi il mio primo articolo per “Karatedo Magazine” dedicato alla musica di metà anni Sessanta, cioè nello stesso periodo in cui il Karate arrivò in Europa grazie ai Maestri Hiroshi Shirai, Taiji Kase, Keinosuke Enoeda e Hirokazu Kanazawa.
Oggi, riprendendo un po’ l’ispirazione che portò a quell’articolo, vi propongo un viaggio in direzione inversa che racconta cosa stava invece succedendo in Giappone.
Per farlo dobbiamo fare un piccolo salto all’indietro, al 1949. 

Le radio gestite dai militari passavano i successi di Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, B. B. King e di un giovanissimo Elvis Presley.

Le ferite della Seconda Guerra Mondiale non si erano ancora rimarginate e la ricostruzione era ancora in corso. Gli americani, ovvero quelli che avevano sganciato le bombe atomiche, occupavano militarmente diverse altre zone dell’arcipelago giapponese. Tra queste c’era Kadena, città sita sull’Isola di Okinawa, che ospitava la più grande base aerea del Pacifico.
Se da una parte la presenza yankees era ingombrante – e non propriamente benvoluta –, dall’altra servì a risollevare il morale soprattutto dei giovani che, per la prima volta, scoprirono il rock ‘n’ roll. Le radio gestite dai militari passavano i successi di Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, B. B. King e di un giovanissimo Elvis Presley. Dato che le onde radio non possono essere filtrate molte ragazze e ragazzi giapponesi iniziarono ad ascoltarli. La “sete di rock” crebbe a dismisura e trovò come punto di riferimento proprio Okinawa che, per posizione geografica, era particolarmente adatta come portaerei naturale e quindi sfruttata dal punto di vista logistico. Quasi tutti i militari rischierati passavano di lì e con loro arrivavano materiali, oggetti e dischi. Inevitabilmente si sviluppò un “mercato nero” della musica che prolificò sempre di più a mano mano che gli artisti diventarono più popolari. 

Arriviamo così agli anni Sessanta, cioè quando centinaia di studenti delle università di Tokyo e Osaka, sfidando le ripercussioni, si ispirarono ai Beatles e al folk dando vita a una vera e propria scena musicale unica in tutto il mondo: quella che univa la musica rock a quella tradizionale giapponese.
Buona parte di questa intuizione è da attribuirsi a Kenji Endo che, da giovane universitario, ascoltò una registrazione pirata di ‘Like a Rolling Stones’ di Bob Dylan. La voce nasale e profonda del Menestrello entrò nella testa di Enzo che iniziò a elaborare le potenzialità della musica rock per raccontare un popolo. Da lì partì la rivoluzione basata sulla rinascita dell’identità nazionale persa alla fine della guerra e quando i Beatles si esibirono, non senza qualche polemica, al Budokan di Tokyo, gli Happy End, di cui Endo era un membro fondatore, mossero i loro primi passi nella controversa industria discografica giapponese.

I Beatles si esibirono, non senza qualche polemica, al Budokan di Tokyo.

Osteggiati e boicottati in quanto considerati troppo ribelli, si rinchiusero in un vecchio appartamento disabitato alla periferia di Tokyo e registrarono con un quattro tracce, acquistato il giorno stesso, alcuni brani che raccontavano della vita dei giapponesi, alternando chitarre elettriche al koto (il tipico liuto giapponese a 13 corde) e la batteria al taiko. Subirono più volte la visita della polizia che sequestrò strumenti e nastri, ma loro non si persero d’animo e nel 1971 pubblicarono Kazemachi Roman prodotto dalla URC, la prima etichetta indipendente della storia musicale giapponese. Testi poetici in lingua madre si sviluppavano sulle trame metriche dei Greatful Dead, raccontando dell’urbanizzazione massiva, dell’improvviso sviluppo tecnologico e di come tutto ciò fosse immune da conseguenze sociali. 

Ad Osaka invece i The Dylans aprirono addirittura un locale dove si esibivano regolarmente dando anche spazio ad altre band emergenti, sulla scia di quello che stava succedendo nel Greenwich Village di New York. Molto più filosofica e radicale rispetto a quella di Tokyo, la scena di Osaka – simile a quella di Berlino per intenderci – portò alla luce l’underground fatto di reietti, omossessuali ed emarginati di ogni tipo, che non erano riconosciuti dalle leggi giapponesi. Oltre a questo, va sottolineato che proprio lì ebbero spazio anche artiste donne, cosa non comune in una società molto patriarcale, che iniziarono a raccontare della condizione femminile lasciandosi ispirare da Joan Baez e Joni Mitchell. 

All’improvviso il glam-rock invase l’Impero del Sol Levante dando colore a una scena fino a quel momento grigia e cupa.

L’anno 1972 fu quello di un’ulteriore svolta. Il 6 luglio David Bowie, o forse sarebbe meglio dire Ziggy Stardust, cantò ‘Starman’ a Top Of The Pops. La tuta spaziale colorata, lo sguardo androgino, i capelli color arancione, cose mai viste su una rete nazionale, passarono in secondo piano rispetto al momento in cui Bowie suonò la carica: «Dovevo telefonare a qualcuno, quindi ho scelto te» disse indicando con l’indice la telecamera. Fece il giro del mondo e fu l’apoteosi. In Giappone la trasmissione fu mandata in onda ignari del vero significato del momento e all’improvviso il glam-rock invase l’Impero del Sol Levante dando colore a una scena fino a quel momento grigia e cupa.
I Sadistic Mika Band pubblicarono il loro disco capolavoro Black Ship considerato uno dei gioielli della discografia rock giapponese e futura ispirazione per il successivo decennio.
Lo stesso anno, al Budokan suonarono i Deep Purple, un evento che rimarrà nella memoria collettiva e definitivo suggello dell’intuizione di Enzo, grazie all’omaggio di Jon Lord che suonò il suo Hammond sulla base della musica gagaku accompagnato da Ian Paice che alternava la batteria al taiko, il tutto mentre Ritchie Blackmore maneggiava la sua chitarra elettrica nell’intro di Highway Star. Tutti gli schemi erano rotti, il J-Rock era realtà. 

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