Ho appreso il kata Gojushihō-shō dal Maestro Kase nel corso di uno stage al Palalido di Milano.
Ho un rapporto speciale, un debito di riconoscenza, verso il kata Gojushihō-shō, maturato in mezzo secolo di pratica, ma soprattutto negli ultimi undici anni, dopo il superamento dell’esame di 5° dan, nel quale secondo me l’esecuzione di questo kata ha avuto un ruolo determinante: ero andato in confusione sui fondamentali, il mio avversario mi aveva mazzolato per bene nel kumite, mi restava solo quella carta da giocare. Partito in affanno, la struttura stessa del kata mi ha permesso di riprendere il fiato e di spendere nel finale tutto quello che avevo ancora da dare. Ma partiamo dall’inizio: in ogni rapporto sono importanti l’approccio e le prime fasi della conoscenza.
Sono rimasto subito affascinato dall’uso delle mani aperte e dal ritmo “naturale” del kata.
Ho appreso il kata dal maestro Kase nel corso di uno stage al Palalido di Milano e sono rimasto subito affascinato dall’uso delle mani aperte e dal ritmo “naturale” del kata, nel quale le fasi lente si alternavano alle fasi veloci. Mentirei se tacessi il fatto che me l’ha reso più gradevole la mancanza di tecniche acrobatiche e di calci laterali. Un kata lungo come Kankudai, ma senza le difficoltà tecniche di Kankudai: amministrando bene le mie forze sarei riuscito a produrre un’esibizione dignitosa, o almeno così pensavo. Era anche uno dei kata preferiti del maestro Capuana, mio insegnante di allora, perciò ho continuato a praticarlo, nella lunga attesa (oltre vent’anni) che mi tornasse utile per un esame.
Nel frattempo mi guardavo intorno in cerca di altri modelli e l’avvento di Internet e di Youtube mi ha consentito di accedere alle interpretazioni degli specialisti migliori del mondo. A schiudermi un mondo, ad aprire una finestra sul significato vero del kata, è stato il maestro Yoshiharu Osaka, nelle diverse (ma tutte magistrali) esecuzioni di questo kata nei vari campionati del mondo che ha dominato. Sì, c’era lo spettacolare Unsu di Yahara (una specie di combattimento furioso con se stesso e con la forma del kata) e c’erano le magistrali esecuzioni dei nostri atleti, sempre un po’ penalizzati nei punteggi. Ma poi arrivava lui, Osaka, un po’ ammaccato e fasciato per i combattimenti disputati. Col suo stile casual che tanto ammiravo diceva il nome del kata, con la stessa enfasi che avrebbe usato se avesse commentato quello che avrebbe mangiato a cena, e cominciava in un momento qualsiasi. Il suo Gojushihō-shō era l’epitome della naturalezza, senza forzature e senza pause: eppure, ogni volta riservava agli arbitri e al pubblico una piccola variazione sul tema, che solo lui si poteva permettere. Come la sequenza di shuto tutti forti e veloci senza riprendere fiato, che di tanto in tanto mi piace imitare quando il maestro Fugazza sta guardando da un’altra parte.
Diceva il nome del kata, con la stessa enfasi che avrebbe usato se avesse commentato quello che avrebbe mangiato a cena.
Dopo l’esame di 5° dan non ho mai smesso di praticarlo, neppure nel periodo del lockdown. Credo di aver capito il concetto di tokui-kata: un kata che ti allarga il cuore quando il maestro ci dice che ci occuperemo di lui. Grazie a lui sono riuscito a farmi piacere anche il suo fratellino bizzarro, Gojushihō-dai, che ho ammirato nella versione impeccabile che ne ha dato il maestro Marchini. Mentre soffro eseguendo i kata che richiedono equilibrio, scioltezza, agilità, doti che, almeno in me, non crescono col passare degli anni e dei decenni, per consolarmi penso che c’è anche lui, il mio amico e che prima o poi il maestro lo tirerà fuori. Caro, vecchio Gojushihō-shō!
P.S. Una preghiera per gli amici praticanti: quando dite (o urlate) il suo nome, evitate di dire “sciò-sciò” come se scacciaste delle galline! La pronuncia è “Gogiuscihò-sciò”! Un po’ di rispetto, che diamine!