L’obiettivo di un maestro di karate con gli allievi: trattarli pensando che sono i successori nella trasmissione della disciplina, trasformarli in scalini che portano verso l’alto e quando il maestro inciamperà o si fermerà saprà che c’è qualcuno che porterà avanti ciò che ha imparato.
Di Susanna Rubatto
Più che un’intervista vera e propria, l’incontro con il M° Ilio Semino, genovese classe 1951, è stata una lunga e piacevole chiacchierata sulla sua vita, profondamente pervasa dall’amore per il karate. Arricchita anche dall’altra grande passione per il mare e la barca a vela, in cui vive da anni, e dove ospita spesso, apprezzato cuoco, amici karateka “vecchi” e “nuovi” senza distinzioni di appartenenza.
Nel ’70 ho conosciuto il grande maestro Shotokan Luciano Parisi, già allievo del maestro Shirai
Maestro, come sono stati i suoi inizi nel karate?
Nell’ottobre del ’65, a quattordici anni, un ragazzo aveva avviato un corso di karate vicino a Genova e un amico mi invitò per provare. Da lì mi innamorai della disciplina, risultando poi abbastanza “bravino” (con grande dispiacere di mia madre, che mi avrebbe preferito in una bolla di vetro, mentre mio padre mi supportava).
Nel karate non fecero mai problemi per il mio handicap all’occhio, mi dissero: “Fai quello che puoi… Se ci riesci, bene, se non ci riesci, le prendi… “.
Io penso che, se non si è in grado per alcune problematiche di fare karate in modo completo (ma nemmeno uno in “formissima” ci riesce sempre…) e si fa ciò che si può, sia una cosa lodevole e positiva per se stessi e per l’esempio che si dà agli altri. Certo, il carattere aiuta su come si risponde alle difficoltà, ma anche il karate può aiutare nella capacità di reazione.
Io sono ben cosciente di cosa implichino questi impedimenti avendoli vissuti di persona in quegli anni, quando le disabilità non erano integrate. Quando provai col calcio mi fecero fare l’arbitro o il portiere…
Ritornando ai miei inizi, all’epoca nel karate si faceva quasi solo combattimento, perché dei kata si sapeva poco, se ne conoscevano uno o due, magari presi dai libri, per esempio quelli del maestro Basile, o da testi americani, ma erano cose un po’ “pasticciate”. Ancora non c’era tutta l’attenzione che è venuta dopo con l’avvento del maestro Shirai e di altri che diedero la certezza della precisione.
Nel ’69 si facevano prevalentemente gare di combattimento e in quell’anno, con grande stupore di tutti, divenni campione italiano juniores. Dopodiché non mi hanno più consentito di gareggiare non dandomi la certificazione medica sportiva, per cui, o smettevo, o imparavo meglio che potevo il karate per essere d’aiuto agli agonisti.
Poi, nel ’70 ho conosciuto il grande maestro Shotokan Luciano Parisi, già allievo del maestro Shirai. Precedentemente ero stato nella FIK dell’avvocato Ceracchini, dove praticavo Wado Ryu ed ero molto amico del maestro Iwao Yoshioka, purtroppo mancato da poco [9 gennaio 2023 NdR], che mi considerava una sorta di fratello minore.
Quando incontrò il M° Hiroshi Shirai e come ricorda quegli anni?
Quando Parisi, che era uno dei più bravi allievi assieme a Falsoni, Panada e a tanti altri, nel 1972 lasciò il M° Shirai, io restai, da sempre affascinato da questo Maestro che mi aveva anche lui messo a mio agio (nonostante il suo modo di farlo fosse quello di non darti due calci nella schiena…).
Con lui ho avuto un buon rapporto e penso che avesse una buona considerazione di me, che cercavo di darmi da fare organizzando stage con lui in Liguria, facendo l’arbitro e tutto il possibile, a parte le competizioni. Così approfondivo lo studio del karate e ricordo che a volte, negli anni ’75-’76, quando a fine lezione qualcuno chiedeva delucidazioni maggiori, il Maestro lo inviava da me dicendo: “lui tutto sa”.
Un bel rapporto durato fino al ’92, quando se ne andò. Nella federazione dove ci aveva portato dettero l’incarico, a me e ai maestri Nando Balzarro e Santo Torre di formare una commissione Shotokan per provare a fermare l’emorragia di quelle società che dalla FITAK andavano nella FIKTA. Furono poi dieci anni molto impegnativi, ma molto belli, dove noi stessi siamo cresciuti, facendo stage in tutta Italia.
È stato un periodo molto proficuo in cui realizzammo anche delle cassette video, che io quando le vedo adesso ancora mi vergogno, perché ci sono delle cose che a oggi non faremmo! Ma è chiaro che, dopo tanti decenni e contrariamente a ciò che succede per altre discipline, con il passare del tempo il karate diventa migliore, meno “ginnico” e secondo me più profondo, più importante.
Poi, nel 2000 andai via dalla Fijlkam (si chiamava ancora FILPJK), perché non mi piaceva la “sportivizzazione” e aveva un po’ emarginato il karate che facevo con Nando, ma che aveva successo, e per questo hanno temuto che il nostro potesse diventare un “centro di potere”, cosa che a noi non interessava assolutamente, dato che ci guidava solo la passione.
Lei insegna da molti anni, dopo tanto tempo cosa le piace ancora del rapporto con i praticanti?
Io penso sempre a cosa posso fare per insegnare in modo migliore, per dare agli altri qualcosa che li aiuti a progredire nelle cose che, ovviamente, io non riesco più a fare.
Insegno a tanti maestri e, non avendo una mia palestra, faccio tre/quattro interventi mensili con i tecnici. Con la FESIK faccio il consulente tecnico, i corsi di formazione e gli aggiornamenti dei maestri, oltre a diversi stage.
La Fesik ha comunque una sviluppata attività agonistica (che io non seguo), ma ci sono anche gli spazi per il miglioramento tecnico e per le cinture colorate, inoltre abbiamo un settore per i disabili con gare di para-karate. L’attività sportiva partecipa ai campionati WUKF (World Union of Karate-Do Federations) e con la Nazionale andiamo all’estero, dove gli atleti hanno la possibilità di confrontarsi anche con agonisti di livello WKF, cosa che in Italia non possiamo fare.
Io sono contento di partecipare alle attività, perché mi sprona a dare sempre qualcosa di nuovo e posso affermare che faccio il karate che mi piace.
Penso che insegnando s’impari moltissimo, soprattutto quando ci si rivolge a coloro che non riescono a fare qualcosa. Tu stesso devi imparare a come insegnargliela in modo che l’altro ci riesca e, quindi, è un lavoro dell’insegnante su di sé e, a volte, è divertente e soddisfacente per entrambi, quando c’è il risultato.
Ho avuto tantissimi allievi, per esempio Lucio Maurino, che cita il periodo in cui si allenava anche con me quando ha vinto il primo campionato europeo juniores, o Fulvio Sole, e tanti altri grandi campioni ai quali non è difficile insegnare, perché hanno già una predisposizione.
A me, però, piace insegnare a quelli che “non riescono”, che “arrivano dopo”.
Un maestro di karate è diverso da un coach, che è un motivatore sportivo, perché deve avere delle competenze in più: conoscere storia, terminologia, origini, conoscere le altre scuole, sapere perché un gesto viene interpretato diversamente ecc.
Io penso sempre a cosa posso fare per insegnare in modo migliore.
Il karate è una disciplina che fa crescere, insegna ai giovani a stare insieme, ad aiutarsi, insegna l’etichetta, ma a fare anche un po’ di fatica, a confrontarsi nelle gare. Poi, da adulti, se se ne ha interesse, bisogna andare più in profondità.
Gli amatori sono troppo spesso trattati come quelli “che pagano la quota”, non hanno un programma. Invece, sono il patrimonio di una società. Sono per lo più tra i 40 e i 60 anni e fanno un karate nelle loro possibilità; io, al mio gruppo “Per tutta la vita” non chiedo bravura, ma impegno, nonostante le difficoltà. Perché non basta essere bravo e non impegnarsi solo perché le cose ti riescono facilmente.
Inoltre, l’insegnamento deve adattarsi alle età differenti e non fare come una volta quando bambini e adulti erano trattati alla stessa stregua.
Anche a chi vuole insegnare dico di essere soprattutto competente e dire poco, ma le cose corrette, senza fare i “fenomeni”.
Nel karate bisogna avere pazienza, tanto non lo s’impara mai tutto, la “Via” è infinita.
Credo che iniziare karate troppo giovani, non sia una cosa buona. Per esempio, se i bambini vogliono incominciare a sei anni, dovrebbero scegliere il judo, almeno per due o tre anni, perché lì si buttano per terra, cadono, si rotolano, imparano a “sentire” il proprio corpo, anche nel contatto con l’altro. È però vero che ora c’è una propedeutica migliore anche nel karate, tornassimo ai metodi del ’74, le palestre si svuoterebbero!
In tutte le discipline nessuno fa quello che faceva cinquant’anni fa: anche i cento metri li facevano in quattordici secondi e ora li fanno in nove. Tutto si evolve grazie anche al cambio generazionale, alle nuove scoperte scientifiche, all’alimentazione, ai metodi di allenamento ecc.
Il karate di oggi è molto più bello di quello “sporco” di una volta. È importante, per qualunque tipo di karate, che venga praticato con raziocinio e, soprattutto, che non faccia male al fisico, anche gli stili possono avere atteggiamenti sbagliati e perciò vanno corretti. Io ho cercato di togliere dal karate gli atteggiamenti e i gesti poco utili e dannosi per la salute del corpo.
Faccio un appello: se gli insegnanti riescono a fare innamorare un bambino del karate per il resto della vita hanno ottenuto il miglior risultato e non se ne hanno fatto un campione. Questo dovrebbe essere l’obiettivo di un maestro quando ha degli allievi: trattarli pensando che sono i successori nella trasmissione della disciplina, trasformarli in scalini che portano verso l’alto e quando il maestro inciamperà o si fermerà saprà che c’è qualcuno che porterà avanti ciò che ha imparato. Io a volte ci sono riuscito e altre volte non sono stato in grado di dare gli strumenti giusti per il miglioramento dell’allievo, così provo e riprovo, finché lui ha la pazienza di aspettarmi. Nel caso cambiasse maestro spero sempre che quest’altro sia in grado di non farlo mollare.
A dire il vero non mi piace il termine allievo, perché io non “allevo” alcuno e mi sembra di dare una classificazione. Preferisco parlare di praticanti e poi ho tanti maestri che mi seguono da molti anni, ma non posso definirli allievi, anzi, spesso è il contrario, sono io a imparare da loro. Di conseguenza, nemmeno mi fregio di essere maestro. Il karate è modestia e umiltà.
Qual è la Sua idea dell’attuale panorama del karate?
Ora c’è stato un sbocco esagerato di piccole organizzazioni con le sigle più fantasiose e, inoltre, di enti di promozione che, invece di fare il loro, fanno le federazioni, cosa che sicuramente ha causato delle perdite alle federazioni “storiche”. Questo perché oggi quando una persona non è contenta di dove si trova, invece di migliorarsi, va da un’altra parte dove l’accontentano. Una modalità che rovina lo spirito di ciò che si fa. Quando uno magari non è promosso a terzo o quarto dan, cambia, andando nella “federazione” che lo promuove più facilmente, ma questo non fa certo bene al livello tecnico generale e lo vedo quando sono invitato a diversi stage. Nonostante l’evoluzione di conoscenze e competenze anche scientifiche, ho notato che il livello tecnico è un po’ calato rispetto agli anni ’90.
Rispetto a quanto ha appena detto, le chiedo: come si stabilisce il livello tecnico di un praticante?
Lo vedi da come le persone si muovono, s’impostano, da come uniscono il gesto al corpo, da come muovono le anche. Un maestro che ha la fortuna di insegnare, ha il dovere di aggiornarsi e di migliorarsi sempre, per se stesso e per il rispetto verso gli allievi.
Io, l’ho detto spesso, ogni cinque anni cambio modo di praticare karate: lo integro con cose nuove, cambio le tecniche che sento possano causare dei danni al fisico. Da giovane guardavo moltissimo il maestro Shirai, più che ascoltare cosa diceva (anche perché in quegli anni parlava molto poco), “registravo” i suoi movimenti; più che pensare a cosa diceva di fare, osservavo come lo faceva lui. Penso che sia molto importante osservare il proprio maestro di riferimento, perché i suoi gesti sono corretti, il corpo fa giusto. Certo, poi dipende da quanto ci si applica per arrivare a fare in eguale maniera.
Che cosa le fa dire di fare la scelta giusta quando afferma che Lei “cambia” il suo modo di fare karate?
Principalmente mi sento meglio fisicamente, ma anche dal punto di vista dell’applicazione.
Per esempio, come ho detto prima, perché io e Balzarro ci “vergogniamo” delle cassette registrate trent’anni fa? Perché adesso sono improponibili! Allora eravamo giovani e un po’ presuntuosi, coniammo addirittura il detto “Il nostro passato è il vostro futuro”, per quelli che ci prendevano in giro perché avevamo il karategi corto, le maniche arrotolate ecc., ma anche con loro siamo tuttora amici.
Io ho amici in tutti gli ambiti, non ho pregiudizi, ciascuno fa il proprio karate, l’importante è che lo faccia bene e per il bene di chi lo segue.
Riguardo al cambiamento, sento che quando sto insegnando correttamente le persone riescono a fare meglio delle cose in cui prima non riuscivano. Cerco di capire come trasmettergliele anche con esempi o similitudini che a volte sono della vita quotidiana, banalità che però, qualche volta, fanno scattare la “scintilla” della comprensione. Poi, naturalmente sono da associare alla tecnica del karate.
C’é sempre dibattito sull’opportunità di fare le gare nell’ambito del karate tradizionale, Lei cosa ne pensa?
Già negli anni ’60 la gara era considerata un complemento della pratica. In gara si verificano le proprie sensazioni con l’avversario, l’arbitro, il pubblico, perché non si può pensare d’essere bravi confrontandosi sempre e solo con i propri compagni e in palestra, dove c’è già una “gerarchia” riconosciuta. In gara, con molti più avversari, la gerarchia la devi costruire mettendoti alla prova. Magari ti trovi con atleti che si sono già distinti, senti forte emozione, ma devi dirti “faccio il meglio che posso, probabilmente perdo, ma posso anche vincere”.
Il karate sportivo ha fatto una completa trasformazione: la gara non è più un complemento della pratica, ma è strettamente uno sport. Senza polemica, posso dire che i grandi campioni il karate non sanno farlo, ma sanno fare bene il combattimento.
È innegabile che il kumite tradizionale abbia degli obiettivi e una filosofia diversi già dall’assegnazione dei punti, dove dovrebbe esserci il colpo definitivo, questo perché deriva dall’arte della spada. È altrettanto innegabile che anche gli atleti del tradizionale, quando gareggiano, vogliano vincere. Poi, adesso, l’atteggiamento è molto più tattico, più dinamico, la tradizione del karate (non il karate tradizionale) non è così. Il kumite era una disciplina in linea, anche se certamente ci sono le uscite laterali, le rotazioni… Nel karate c’è tutto, basta saperlo trovare: ci sono la lotta a terra, le proiezioni ecc. Nel tempo, però, molto è stato “ripulito”, tenendo solo il centro.
Tra parentesi, il karate tradizionale è stato chiamato così dopo quello sportivo. Con il M° Shirai e il M° Nakayama, non abbiamo mai appellato il karate come tradizionale, è iniziato da dopo la separazione, per distinguere gli obiettivi.
Ritiene che sarà mai possibile l’unificazione del karate?
È dal ’77 che se ne parla. Io allora votai no all’unificazione e avrei mantenuto la Fesika col M° Shirai ed Elia Fugazza presidente, rimanendo fuori dal CONI.
Adesso ogni organizzazione offre ciò che le persone vogliono: vuoi far solo agonismo? Non t’interessano fondamentali, kata, storia, etichetta, filosofia ecc.? Ok, fai solo kumite e gare. Parimenti, ci sono altre entità che rifiutano le gare e fanno solo pratica.
Poi ci sono federazioni che offrono un panorama più ampio, con tanti bravissimi maestri anche di vari approcci, e mi chiedo come farebbero a convivere tante “anime” diverse del karate.
Altrimenti, ci vorrebbe un’unica organizzazione che racchiudesse tutti e nel momento in cui ci fossero da fare selezioni importanti per gare internazionali, scegliesse i migliori un po’ in tutte le realtà. È chiaro che finché i gruppi sportivi militari sono riconosciuti solo dalla Fijlkam, quelli sono gli atleti migliori, dato che hanno la possibilità di fare karate professionalmente. Nelle altre federazioni gli atleti devono lavorare e/o studiare. Nella stessa FIKTA, quando per esempio vado dall’amico Valerio Polello a seguire i campionati, vedo ragazzi e ragazze bravissime, migliori anche di quelli che vedo ai mondiali, ma non vengono considerati.
Anche perché, come per esempio per le Olimpiadi, devi avere i soldi per permetterti il ranking.
Nel karate bisogna avere pazienza, tanto non lo s’impara mai tutto, la “Via” è infinita.
A proposito di Olimpiadi, Lei come ha visto l’ammissione del karate a Tokyo?
A me è dispiaciuto che il karate non abbia fatto la figura che merita e, anzi, che sia stato molto criticato. Non conosco la “politica” che ha determinato certe scelte, ma credo che se avessero fatto vedere, ad esempio, il kata a squadre, sarebbe risultato più spettacolare (non esageratamente spettacolare come fanno loro, ma più attinente). Sarebbe stato bello dare la possibilità anche ai non professionisti di partecipare, però a quel punto lo stato avrebbe dovuto assumersi le spese del ranking. Questo senza nulla togliere ai professionisti che conosco e sono di altissimo livello, ma forse si dovrebbe pensare anche ai “figli di un dio minore”.
Lo Shotokan “tradizionale” può ancora avere come riferimento il karate della JKA?
La JKA è un’organizzazione molto seria e per lo Shotokan un punto di riferimento. Mi lascia perplesso la fuoriuscita di tanti grandi maestri che hanno formato le loro organizzazioni, ma perplesso per modo di dire, dato che conosco bene i motivi legati esclusivamente a potere e denaro. Al di là di questo continuano a fare il karate JKA.
Anche se c’è questa “new wave” del M° Naka che è molto simpatico e ha cambiato l’approccio tradizionale. Io stesso feci questo cambiamento nel modo di affrontare le persone, mentre, soprattutto agli inizi c’era nei maestri un atteggiamento più severo e austero.
Credo, invece, che il karate si debba fare col sorriso e non trasmettere la preoccupazione della punizione.
Il karate della JKA è un buon karate, ma molto legato all’antico, fanno ancora cose invise agli ortopedici: le posizioni lunghe, il ginocchio posteriore ecc. Cose di cui la mia generazione ha pagato le conseguenze fisiche.
Il karate deve fare bene, perciò, l’ultima cosa che deve fare, è fare del male. E poi, dentro di noi dobbiamo sorridere, perché il karate è gioia, se lo dimentichiamo diventa come altre cose che facciamo per forza. Come quando cucino… sono contento, altrimenti non cucinerei.
Parlando dell’autodifesa (in un suo articolo per KarateDo Magazine) Lei fa un distinguo basandosi sul concetto che il karate e altre discipline marziali sono arte… Può spiegare il suo pensiero?
Tutte le discipline marziali hanno la prerogativa della difesa personale, però c’è da fare un distinguo. Il karate ha in sé tutte le possibilità di divenire un’arte di difesa eccezionale, ma dev’essere praticato in un certo modo, non solo due ore alla settimana. Se tutti i giorni mi alleno fisicamente con corsa, pesi ecc., poi faccio un karate dove mi condiziono a colpire realisticamente, con avversari con protezioni che si lasciano colpire davvero e, inoltre, faccio un condizionamento dove imparo anche a “prenderle” e, a differenza per esempio della boxe, questo è un limite del karate controllato fatto in palestra, allora la difesa può iniziare a essere più interpretabile.
Quando andavamo ad allenarci al CSKS in via Maffei (MI) avevo paura, perché ero sicuro che le avrei prese! E temevo di prenderne più di quelle che pensavo da Capuana, da Tammaccaro, da De Michelis o da Montanari, che si allenavano tutti i giorni col M° Shirai ed erano forti. Ne uscivamo sempre ammaccati, se non sanguinanti.
Questo clima, che non vivevo solo io, dopo il 1990 iniziò a cambiare, andando verso un karate meno “brutale”.
Io mi rifaccio un po’ al Maestro Funakoshi che non voleva fare combattimento, pensando che aggiungendo il suffisso Do a karate diventasse una delle discipline del Budo, cioè del miglioramento della persona, in unione con l’universo, attraverso una pratica del corpo severa e impegnativa, con una pratica corporea che fa superare il limite fisico, per tendere a una dimensione superiore. Qui nasce l’arte.
Detto questo, non so se tutti i miei anni di karate mi potrebbero aiutare nel caso fossi aggredito, non posso dirlo. Però me ne farei una ragione, ma non per questo rinnegherei quanto ho fatto e quello che mi ha dato il karate, rendendomi felice, solo perché un delinquente ha avuto la meglio.
Poi, se dovessi insegnare a qualcuno l’autodifesa farei un allenamento col makiwara, con i pesi, col sacco ecc., simile a quello di chi sale su un ring. Dovrebbe imparare “a prenderle e a darle”, imparare le situazioni “limite”, come le prese al collo, ma soprattutto dovrà avere in più la dote della spietatezza dove, più dei muscoli occorre la volontà di fare male. Quello che differenzia l’aggressore dall’aggredito sono il vissuto e le motivazioni.
In conclusione le arti marziali sono tutte valide per la difesa, ma devono essere allenate per quello scopo, non pensando che due ore alla settimana siano la risposta.
Nemmeno il bunkai è la “realtà”, è una rappresentazione teatrale di un avvenimento drammatico, dove i due attori sanno cosa stanno facendo. Il meglio che si possa fare è di renderlo credibile.
Come si vede oggi?
In alcuni commenti sui social media dicono che da giovane ero un po’ più irruento e a vent’anni volevo fare il gradasso… Oggi, cerco di non giudicare a priori. Se io sostengo qualcosa è perché ci credo, ma se l’altro mi convince e mi fa capire che è sbagliato, io sono disposto ad accogliere e a sostenere la sua argomentazione. Purtroppo però, a volte non c’è dialogo o non c’è “spessore” per creare una confronto proficuo (soprattutto nei social media), ma alla fine è comunque bello così: che siamo tutti diversi.
In conclusione voglio dire che dal karate ho ricevuto più di quello che gli ho dato, quindi, è stato molto gentile con me. Io so quanto ho dedicato e l’impegno che ci ho messo, ma agli inizi, dopo cinque, sei anni, non avrei mai immaginato quanto avrei ricevuto.
Karate per me è una cosa vera, viva, per questo quando ne scrivo non uso l’articolo, non dico “il” karate e gli sono grato per le soddisfazioni e per la crescita umana che ho ricevuto.
Quando dico che karate mi consola o che mi tiene compagnia, intendo che, com’è successo proprio ieri sera, non avendo sonno mi sono messo a scrivere un articolo e questo mi ha stimolato a pensare al karate. Anche questo, per me, è un modo di praticarlo.
Ci sono stati momenti nella vita, magari tristi o dolorosi, dove karate mi ha dato forza, perché mi confortava pensare che sono riuscito a fare e a sostenere quanto la pratica, il Maestro Shirai e gli altri maestri mi richiedevano.