Meditare non richiede talento o dono particolare, ma volontà e coraggio. È dialogo e confronto con se stessi e col mondo.
Il Mokusō è strettamente collegato alla tradizione Zen e trova lo stesso denominatore comune in: Mindfulness, Zazen, Vipassanā, Dhyāna e Kinhin, verosimilmente paragonabile ai peripatetici di Aristotele; ovvero termini con lo stesso lemma e obiettivo, ma a volte applicati in modi differenti: il ritiro della mente dal mondo materiale esattamente come il Mushin (Muga), la mente-senza-mente, in cinese Wuxin, lo stato in cui “noi e il mu (vuoto o nullo) siamo uno e lo stesso“, nella corretta armonia (Wa) tra respiro, postura e concentrazione.
“La mente è la chiave per comprendere la vita… essenziale acquistarne il dominio. I maestri Zen hanno elaborato una tecnica di meditazione lo Za-Zen che insegna al discepolo a rilassare il corpo, bandire i pensieri oziosi e non disperdere la propria energia nervosa”. (Alan W. Watts, Lo Zen, Bompiani, Milano, 1980, p. 76).
La meditazione non è un ricettario di soluzioni immediate, una panacea.
Meditare non richiede talento o dono particolare, ma volontà e coraggio! La meditazione non è un ricettario di soluzioni immediate, una panacea, un oggetto prêt-à-porter, una caramella pronta per essere scartata e assaporata, né tantomeno una trovata magica o da prestigiatore: non c’è nessun coniglio bianco nel cappello a cilindro!
È, invece, dialogo e confronto con se stessi e col mondo, mai fisso, ma in continuo movimento, cambiamento e trasformazione, punto di cesura e di saturazione.
Forza e ricchezza interiore anche (e soprattutto) nei momenti di precarietà e instabilità; quella capacità di sfaldare e disciogliere, come una zolla d’argilla gettata in acqua, qualsiasi alterazione o preoccupazione, ombra di dubbio o confusione; quel ‘luogo’ dov’è parcheggiato il pensiero-azione, che provoca dissonanza allontanandoci dalla serenità d’animo, per prendere le giuste decisioni, evitando così il rischio di ‘pattinare’ o ‘scarrellare’ su altri binari o, peggio ancora, condurci su quelli a fine corsa.
Fare ed essere nella ricerca del Bene e della Verità (la maieutica, memori di Socrate e Platone), scomponendo perciò tutti gli elementi che compongono la mise em abyme della Vita stessa, ponendoli sul piano come un’epifania d’amore, empatia col mondo, sinfonia di sentimenti, contemplazione delle meraviglie della Natura e gratitudine divina.
Tendenza, questa, peculiare della società giapponese che fa della coscienza di sé un punto di arrivo, lasciando da parte la tara del superfluo nella reiterata diffidenza tra teoria (tatemae) e pratica (hon’ne), termini che indicano un fenomeno tipico del Paese del Sol Levante ancora in aperto dibattito in Occidente.
Tutto parte dalla forma più semplice del Mahāyāna, basata sull’apprendimento della meditazione, definita come: “addestramento alla concentrazione e all’analisi, che esamina un oggetto e l’approfondisce, fino a superare l’io”.
Il Mokusō è perciò anche una strategia vincente per mantenere in salute le nostre capacità cognitive.
Questo attiva le sinapsi, stimola i neuroni, con l’obiettivo d’incontrare il punto d’equilibrio nel nostro sistema nervoso: simpatico (quello intellettuale, dell’azione e del pensiero) e parasimpatico (quello del riposo, dell’assorbimento, dell’intuizione). Coinvolge così il sistema limbico, in particolare il ruolo determinante dell’ipotalamo nell’espressione delle emozioni e l’effettiva esistenza di circuiti di connessione tra aree corticali superiori, formazione ippocampale e amigdala, citochine e ormoni (che viaggiano attraverso il flusso sanguigno), neurotrasmettitori (che mediano la comunicazione tra un neurone e l’altro) e neuromodulatori (che lavorano principalmente nel cervello e nel sistema nervoso centrale), parliamo quindi di dopamina, serotonina, ossitocina, adrenalina etc.
Il Mokusō è perciò anche una strategia vincente per mantenere in salute le nostre capacità cognitive, creando una riserva, un serbatoio – quali la memoria, l’attenzione, l’apprendimento, la pianificazione, etc. – in grado di rallentare il processo d’invecchiamento, le temute e sempre più presenti malattie neurodegenerative, in forma lieve (MCI, mild cognitive impairment) o severa (Alzheimer).
La meditazione è dunque la porta d’ingresso all’equilibrio!
Concetto permanente nello Zen che coniuga il binomio imprescindibile e irriducibile di disciplina e libertà (anche come liberazione) mentale, del-dal suo stesso pensiero generato e generatore. Precisa però D.T. Suzuki: “Lo Zen è qualcosa di più della meditazione e del Dhyāna… La sua disciplina consiste nel dischiudere l’occhio della mente allo scopo di penetrare nell’autentica ragione dell’essere” (Introduzione al Buddismo Zen, Ubaldini Editore, Roma, 1970, p. 43).
Nello Yoga il termine Dhyāna “meditazione”, la “corrente di pensiero unificata” (Yogasūtra III,2), è lo stato in cui la mente entra quando la concentrazione (dhāranā) diventa stabile e continua.
Il mokusō è dunque solo un mezzo per formare o arricchire la consapevolezza (nella tradizione buddista chiamata samma sati); attivare un processo di rettifica, calibratura e, se necessario, disperdere l’ossessiva impostazione binaria dell’ “io-mio” (come per esempio il possesso nelle relazioni affettive che porta a gravi e violenti disturbi psichici, visibili più che mai oggi, e/o l’attaccamento anche morboso a beni materiali, la febbre dell’apparenza e la bramosia del potere-successo).
Ma attenzione anche a non esagerare!
Cambiamento e coraggio, quindi, di spingersi oltre le Colonne d’Ercole.
L’eccesso di pensiero può portare a quello che viene oggi chiamato neoplasia cognitiva. In fondo, anche santa Teresa d’Avila avvertiva già nel 1577: “La preoccupazione di non pensare a nulla può forse eccitare la mente a pensare molto” (Il Castello Interiore, Edizioni Paoline, Milano, 2021, p. 96); poi ammonisce di come la pratica prolungata, estenuante, sia un vero e proprio pericolo: “Nel loro cervello [dei praticanti] credono che si tratti di un rapimento, mentre io lo chiamo istupidimento” (Ibidem, p. 99).
Cercare quella trasformazione, quindi, con la massima attenzione ed equilibrio, sciogliere anche i nodi più difficili (blocchi energetici), quelli che si sono incattiviti col tempo, tirati o forzati a tal punto che ora per disfarli bisogna applicare alte dosi di pazienza certosina, sempre se non si voglia tagliare e buttare via la cima, recidere il legame in questione.
Una forma alchemica, nel senso di approccio naturale al ‘problema’, squisitamente personale e non soggetto a forzature e costrizioni, né a influenze subliminali o dirette, né tantomeno dettate da imbonitori e incantatori di serpenti (facondamente presente in YouTube).
Si evitano così i voli pindarici, riuscendo anche a intervenire nella bruttezza e brutalità delle esperienze del mondo, portandole in un’altra dimensione, cominciando da quella personale nella triade platonica: Bellezza, Etica (kalokagathìa) e Sapienza… difficile, ma possibile!
“No mud, no lotus“, senza fango non c’è fiore di loto!
Mantenere al centro comunque e malgrado tutto il leitmotiv che ripete C.G. Jung: “L’amore è la madre insostituibile della vita” (Libro Rosso, Bollati Boringhieri, Torino, 2016, p. 323).
Cambiamento e coraggio, quindi, di spingersi oltre le Colonne d’Ercole. Di saper “volare”, facendo però attenzione a non collocare la cera per unire le piume delle ali se si vuole andare ad altitudini prossime al sole, a quell’oltre, verso l’imprevedibile e l’imprevisto, lo sconosciuto, senza una base minima di preparazione e prevenzione.
In conclusione, il messaggio è quello di prendersi cura del proprio giardino interiore: abitare il presente hic et nunc (qui e ora); eliminare qualsiasi tara e zavorra; alimentare e coltivare se stessi attraverso le meraviglie della Natura e della vita.