Il karate, soprattutto lo Shotokan tradizionale, insegna a gestire la paura per gradi, graduando il numero delle difficoltà del kumite.
Durante uno stage, quando si passa agli esercizi in coppia (di qualunque tipo, dal kihon ippon kumite alle tecniche di jiyu kumite e perfino ai bunkai), la prima cosa che fa il mio maestro è di AVVICINARE l’uno all’altro i due karateka che devono effettuare la dimostrazione.
“Da questa distanza è inutile parare” spiega il maestro facendo eseguire la tecnica a vuoto e dimostrando che il pugno si ferma qualche centimetro prima del naso, o del plesso solare. “Se il vostro compagno non sente una reale sensazione di pericolo, non reagirà con decisione e prontezza. State sparando a vuoto, così non si allena né l’attaccante né il difensore. State facendo un esercizio di stile, non un combattimento. Allora tanto vale farlo da soli”.
Poi il maestro fa avvicinare i due praticanti alla distanza che LUI giudica corretta, dà il comando “Hajime” e attacco e difesa hanno un ben altro livello di realismo. Tutto a posto dunque?
“Se il vostro compagno non sente una reale sensazione di pericolo, non reagirà con decisione e prontezza”.
In uno stage ci sono forse cinquanta persone. Il maestro passa a correggere un’altra coppia mentre io, libero da questa incombenza, torno a osservare la prima coppia, che ha ripreso l’esercizio con rinnovato zelo. Passano cinque minuti (a voler essere generosi) e i due amici sono nuovamente FUORI DISTANZA. Probabilmente, se il maestro troverà il tempo per gettare nuovamente un occhio su di loro, li riprenderà con maggior energia, forse alzando la voce.
I due reprobi non sono solamente testoni (come la maggior parte di noi, in primis chi scrive), ma hanno paura. Dalla loro comfort zone, attaccano e difendono con (relativa) forza, velocità e sicurezza, certi della propria e altrui incolumità. Avanzando invece di quei pochi centimetri, si accorgono di entrare nello spazio vitale dell’avversario e il loro cervello rettiliano, di fronte all’alternativa primordiale “fight or flight”, se potesse (ma il decoro del dojo lo impedisce) griderebbe flight! A squarciagola.
La paura non è un sentimento di cui vergognarci, perché è una dotazione pro-sopravvivenza di cui sono provvisti tutti gli esseri viventi. Il karateka che afferma di non averla mai provata mente, oppure non ha mai fatto seriamente karate, o ancora (terza ipotesi più pericolosa) è uno psicopatico che ha bisogno di assistenza psichiatrica urgente, di essere prelevato dal dojo e non certo messo di fronte a suoi simili col comando di “attaccare”. Il vero problema è cosa farsene, di questa paura. Il karate, soprattutto lo Shotokan tradizionale, insegna a gestirla per gradi, graduando il numero delle difficoltà.
Nell’insegnamento tradizionale le cinture bianche, appena apprese le tecniche di chokuzuki, ageuke, sotouke, uchiuke e gedanbarai, vengono subito messe le une di fronte alle altre e imparano a proprie spese (a buon mercato direi) a dirigere e coordinare attacchi e difese, a non chiudere gli occhi, a usare la rotazione delle anche, a compensare con semplici accorgimenti differenze di statura e di peso. Solo quando in questo esercizio si acquista una certa sicurezza, si accelera per passare al prossimo. Test della paura: difficoltà 2/5.
Si può capire con quanta meticolosità e gradualità i maestri della JKA abbiano scritto il nostro programma.
Il gohon kumite, per una cintura bianca, è di una difficoltà spaventosa! La distanza non cambia ed è sempre letale, e i pugni arrivano, in sequenza sempre più rapida: se si perde la concentrazione se ne possono prendere (nel senso di non parare) anche cinque in faccia o nella pancia, e anche se velocità e forza sono controllate, è tutt’altro che divertente. Testa della paura: difficoltà 3/5.
L’esercizio successivo, il kihon ippon kumite, si basa più sulla qualità che sulla quantità di attacchi e difese, e permette a entrambi i praticanti di concentrarsi su una tecnica sola, quella che forse diventerà il proprio tokui waza. È un esercizio in cui eccellono le cinture verdi e si cominciano a intravvedere, per rapidità e sicurezza, i futuri talenti del kumite. Ma il kihon ippon è anche l’ultimo esercizio a distanza prefissata! Questo significa che, come Cristo in croce, non potete rubare centimetri per sottrarvi alla fucilata che sta per arrivare. Dovete pararla! Quante volte si vede, nelle palestre e nelle gare mediocri, il pietoso spettacolo di tori che si porta sulla linea segnata con lo scotch per attaccare e uke che indietreggia, facendo finta di niente, di altrettanti centimentri. Non ci siamo, signori miei, non ci siamo! Test della paura: difficoltà 4/5.
Ho insistito tanto sul programma dei primi due anni, perché se il praticante non ha imparato fin qui ad attaccare e difendersi dalla giusta distanza, chiamato a cimentarsi nel jiyu ippon kumite, darà ben scarsa prova di sé. Qui molto si gioca sul controllo della distanza, nel rubarla all’avversario al momento del nostro attacco e nel sottrarsi quel tanto che basta al suo, per evitarlo e contrattaccare. Purtroppo, come afferma il mio maestro, la maggior parte dei combattimenti “semiliberi” , che si vedono all’esame o in gara sono solo dei “kihon ippon” eseguiti partendo da zenkutsudachi.
Dato che il jiyu ippon kumite prepara al combattimento libero, si può capire con quanta meticolosità e gradualità i maestri della JKA abbiano scritto il nostro programma. Ciò nonostante, può capitare che qualcuno filtri tra le maglie del sistema e si presenti all’esame di primo, o anche secondo Dan, senza aver pienamente dominato queste due brutte bestie: distanza e paura. Il consiglio che gli do (non per essere monotono) è lo stesso che mi darebbe il mio maestro: ripartire dalle basi. Trovare del tempo libero e allenarsi con un compagno, partendo dagli esercizi in apparenza più semplici, che sono anche i più difficili da eseguire correttamente: “in piedi, uno di fronte all’altro, più vicini di quello che vi piacerebbe…”.