In ambito marziale il rispetto è espressione dell’ammirazione per l’avversario, ancorché nemico, capace di mettersi in gioco interamente e senza compromessi.
Sonkei – Riconoscimento di una superiorità morale o sociale, manifestato attraverso il proprio atteggiamento o comportamento.
In parole povere: rispetto. Ma il rispetto dovrebbe essere un concetto che prescinde da qualsiasi posizione di superiorità di chi lo riceve e d’inferiorità di chi lo esprime.
Dunque, un livello superiore di coscienza, in cui, chi è (o ha…) “di più”, riconosce il grande valore di quell’altro, giunto proprio per metterlo alla prova…
In questo senso potremmo e dovremmo dire che il rispetto nasce dalla compassione per il più debole. Un livello di comprensione che richiede la capacità di percepire quanto provato dall’altro senza ulteriori valutazioni di merito, acriticamente.
Ecco quindi che, in questa accezione, il rispetto assume un valore evolutivo, identificandosi in pieno nei valori della Coscienza Cristica.
Il rispetto nasce dalla compassione per il più debole.
È questo un processo di crescita personale e spirituale volto a comprendere e trasformare pienamente la natura inferiore degli esseri umani, pure emanazioni dell’Energia Divina dalla quale, secondo tutte le religioni e le filosofie di crescita personale, deriverebbero.
Una seconda nascita dunque, nella quale, l’essere incarnatosi, attraverso le esperienze della vita materiale, comprende il senso reale della sua missione animica, rinascendo a se stesso, quale essere evoluto.
In questa missione, tale essere riuscirebbe a diventare ciò che già è: la pura emanazione dell’amore assoluto, l’amore per l’appunto di origine Divina, rincontrando e riconoscendo il suo Sé Superiore.
In ambito strettamente marziale, il rispetto è espressione dell’ammirazione per l’avversario, ancorché nemico, capace di mettersi in gioco interamente e senza compromessi, fino alla morte se necessario, prescindendo dallo stesso bisogno di vivere, per testimoniare il proprio onore e consentire al suo contendente di esprimere il suo, indipendentemente dal risultato dello scontro.
Anche in ambito animale esiste un equivalente di questo sentimento, quando in uno scontro non finalizzato alla sopravvivenza (di tipo alimentare) il contendente più forte ed esperto si ferma, prima dell’uccisione dell’avversario, allorché questo, resosi conto della propria fragilità, gli offre le proprie parti più vulnerabili, ammettendo la sconfitta.
Sempre nelle arti marziali, il concetto di rispetto trae evidenza dallo stato di Ai Ki, processo di fusione spirituale, generantesi nel momento in cui, gli occhi di due praticanti si congiungono, subito prima di affrontarsi in uno scontro dimostrativo (kumite) che, pur non prevedendo la morte fisica di alcuno dei due, dovrebbe essere trattato con spirito metaforicamente equivalente.
In questo momento, i due praticanti s’inchinano vicendevolmente e dovrebbero farlo con atteggiamento estremamente deferente, testimoniando la piena comprensione di ciò che stanno facendo.
Per inciso, in questo concetto l’ideogramma 合 (ai) significa unione, l’ideogramma 氣 (ki) significa spirito, anima.
Nulla a che vedere, dunque, con le deprecabili e sincopate farse cui assistiamo in molte competizioni moderne di Karate.
Il concetto di rispetto trae evidenza dallo stato di Ai Ki, processo di fusione spirituale.
Dopo oltre cinquant’anni di pratica marziale mi sono reso conto, con grande dispiacere, di quanto il termine “rispetto” sia, in quest’ambito, uno di quelli più abusati, in particolare nel Karate.
Quando qualcosa di orientale arriva in Occidente, in particolare in Italia, questo qualcosa viene da subito incorporato acriticamente nel lessico dei praticanti, ancorché travisato.
In genere ciò dipende dal grande bisogno di valori morali di riferimento e soprattutto di spiritualità di cui gli Occidentali, e innanzitutto gli italiani, necessitano, schiacciati dall’onnipresente materialità di una civiltà ormai molto decadente e, di fatto, decaduta.
In questa, specialmente in Italia, la cultura, influenzata pesantemente dai valori della religione cattolica, tende a negare l’esistenza di una spiritualità al di fuori di un ambito fideistico.
Tuttavia, ci si dimentica che il rispetto nasce da comportamenti pro-attivi di chi, in definitiva, lo riceve.
È capitato anche a me, giovane e volenteroso praticante di Karate, di tributare un rispetto cieco e acritico ad alcuni “grandi” Maestri frequentati, nipponici e non, per poi rendermi conto dei loro tanti e profondi limiti.
Tali limiti, naturalmente, esprimevano la loro legittimissima umanità.
In altri, invece, ho visto una reale capacità di esprimere il rispetto dovuto ai loro praticanti, coloro che in definitiva sostengono e legittimano il loro status.
È capitato anche a me naturalmente, provenendo dalla FESIKA, di usare metodi molto duri di insegnamento, nondimeno, credo (ma qui dovrebbero essere i miei allievi a dirlo) di non aver mai mancato di rispetto ad alcuno di loro. Oltretutto, ho sempre provato molto disagio davanti a queste modalità di interazione umana.
Il rispetto è espressione dell’ammirazione per l’avversario, ancorché nemico.
Ho, peraltro, imparato moltissimo dall’insegnamento del Karate in ospedale, nelle unità di oncoematologia infantile, comprendendo a fondo cosa sono il rispetto e il valore dell’inclusività che dovrebbero contraddistinguere un buon insegnante in generale e di Karate in particolare.
Ciò che più colpisce, nell’ambito delle arti marziali, è l’assoluta mancanza di rispetto di alcuni Maestri, anche molto altolocati, per i praticanti che a loro si riferiscono.
In questa tendenza, tali insegnanti, si percepirebbero (almeno inconsciamente…) legittimati dalle “gravi angherie” subite, nel loro percorso di “crescita”.
Una sorta di nonnismo di natura militare, trasportato nella “loro” e altrui esistenza.
In ciò, evidentemente, essi distorcerebbero lo stesso valore di quel Dojo Kun (Regole del luogo in cui si ricerca la Via) che pretendono di recitare e far recitare ai loro adepti.
In questo processo perderebbero il valore dell’insegnamento ricevuto, ancorché negativo, ampliandone l’effetto deleterio e il suo stesso algoritmo espressivo, totalmente contro-educativo, avvalorando il concetto secondo il quale, se tutto il dolore che hai provato non ti ha migliorato, lo avrai sprecato.