Un vademecum pro-sopravvivenza per karateka “normali”, non più al picco della loro condizione psico-fisica.
Premessa: questo non è un articolo di autoesaltazione in bilico tra machismo (“che duri e puri, noi del tradizionale”) e masochismo (“soffriamo, ma ci purifichiamo attraverso la sofferenza”), ma un vademecum pro-sopravvivenza per karateka “normali” (quasi un ossimoro) non più al picco della loro condizione psico-fisica.
Ricordate anzitutto che non siete degli eroi, che nessuno vi costringe a praticare e se siete sul tatami lo state facendo solo per voi stessi, altrimenti sareste a fare del volontariato su un’ambulanza o assistenza in una RSA.
Chiariti questi dettagli, immaginate di essere a metà di una lezione di karate tutta imperniata sul consolidamento di una posizione “comodissima”, diciamo fudodachi. Immaginate altresì che la lezione non sia la prima della settimana dopo un weekend trascorso alle terme, tra abluzioni e massaggi, ma che sia la quinta consecutiva, tra corsi e stage vari, alla quale vi siete decisi a partecipare dopo un tormento interiore degno di miglior causa.
Il cento per cento di un uomo di settant’anni non sarà come quello di quaranta o di trenta.
Mentre le vostre gambe tremebonde (anche se di cemento) si sforzano di assumere la stramaledetta posizione inventata da un sadico Kapò nipponico, mentre il ginocchio anteriore tende a rialzarsi e voi cercate di convincerlo a cadere a piombo sul piede, ecco che vi si affianca il maestro e, ignaro o indifferente alla vostra sofferenza, vi spiega con dolcezza che è inutile “resistere” a fudodachi, è futile “lottare con la posizione”: la cosa giusta da fare è “arrendersi”, (non già nel senso più ovvio di fuggire urlando dal tatami e mai più farvi vedere), ma di abbassarvi ancora di più trovando così la stabilità e la pace dei sensi.
Vi lasciate convincere dal vostro amabile torturatore e abbassate il vostro fudodachi di un buon millimetro, ricompensati dallo sguardo, indecifrabile ma non ostile, del maestro. Nel frattempo sono passati quaranta minuti buoni e arriva il momento fatidico del “facciamo forte e veloce”. Voi non vi siete mai risparmiati, sapete che la tecnica non è il vostro forte e cercate di ovviare con l’impegno. D’altra parte adesso si tratta di Heian shodan, mica di Ura Ko-no Kankudai, no? E ci date dentro, attingendo alle vostre residue energie.
Dopo una decina di tecniche il volto del maestro fa capire che non è contento di quello che vede (non in particolare di quello che fai tu, o almeno speri).
Ferma tutto e inizia il dialogo socratico: «Filippo (nome a caso), da zero a cento, quanta forza pensi di averci messo?». Per il malcapitato è impossibile fornire una risposta soddisfacente: se dice “cinquanta per cento” passa per un lavativo e si becca una lavata di testa. «Stai male? Sei stanco? Allora è meglio uscire che fare piano! Abbiamo fatto piano per 40 minuti, adesso è il momento di tirare fuori tutta l’energia che avete!». Se dice, con aria depressa: «Ho fatto al cento per cento, Maestro!» non viene creduto e si becca una lezioncina supplementare sull’utilità del superare i propri limiti e non adagiarsi in una “esecuzione di comodo” che finirebbe per arrestare definitivamente il suo progresso.
«È chiaro», prosegue il maestro guardandomi di sfuggita, «che il cento per cento di un uomo di settant’anni non sarà come quello di quaranta o di trenta, ma sarà comunque il meglio che quella persona può dare qui e ora. Certe volte vengono a trovarmi dei vecchi compagni di allenamento di quarant’anni fa e mi dicono: “Ti ricordi come ci faceva sputare sangue il maestro Shirai?” Io vorrei rispondergli: Sì, ma dove sei tu ora? Io sono ancora qui a dare il massimo con le mie energie di oggi, tu invece sei perso in ricordi che non servono a niente. Quello che conta è il qui, l’ora».
Lo spirito, che viene prima dell’azione, ti può proiettare al di là dei tuoi limiti.
Convinto da questo approccio un po’ zen, cerco di richiamare più rapidamente la gamba posteriore nello tsugiashi, di usare le anche per cambiare direzione. Non so se ci sono riuscito: tutte le volte che mi rivedo in un video, rimango deluso dalla lentezza con la quale mi sposto.
Certamente fissare l’attenzione sul come ci si muove, cercando di usare a nostro vantaggio le forze fisiche in gioco, può migliorare il nostro karate allontanandolo dalla comfort zone di ripetere automaticamente tecniche che si conoscono a memoria.
Quando il maestro ti dice di fare più forte, anche se sei convinto di stare già dando il massimo, ti sta dando un segnale. Non ti sentire incompreso o poco apprezzato, cerca di capire dove puoi ancora racimolare forza e velocità. Anche se hai settantuno anni, un ginocchio che ti fa male e le gambe di marmo.
Lo spirito, che viene prima dell’azione, ti può proiettare al di là dei tuoi limiti.
«Prima di svenire per la fatica» ripete spesso il maestro Fugazza a metà tra il serio e il faceto, «ne devi fare di kata… ».