Dedicato al Karate agonistico e a ciò che può donare.
Dedicato al mio capitano Nicola Bianchi.
Ho “respirato” Nicola Bianchi per più di 10 anni in Nazionale e ho avuto la fortuna di gareggiare accanto a lui per diversi Campionati ESKA e WSKA. Ho potuto guardare e conoscere l’uomo dietro quell’atleta dagli occhi severi e dalla barba lunga. E ho avuto l’onore di poter scendere sul tatami con lui, come una squadra. Perché, a cosa serve l’agonismo se non a creare questo tipo di legami? Allenarsi, sudare e soffrire fianco a fianco crea qualcosa di indissolubile che va oltre i risultati. Il più delle volte in una squadra basta uno sguardo per dirsi “non ce la faccio più” ed è lì che il vero capitano, con una sola parola, pompa il fuoco nei tuoi muscoli facendoti spingere ancora un kata, e poi ancora uno, fino alla fine. Si chiama moichido. Nicola per me è stato tutto questo… sicuramente un avversario difficile da buttare giù, eppure un amico sincero e un capitano speciale. Mi ha ispirato molto negli anni e vorrei raccontarvelo con uno dei tanti riflessi luminosi che ho di lui, così nitidi nella mia memoria.
Mi ha ispirato molto negli anni e vorrei raccontarvelo con uno dei tanti riflessi luminosi che ho di lui.
Anno 2016. Fine novembre.
Eravamo appena tornati dal Campionato Europeo ESKA in Grecia. Sarebbe bello raccontare di un coming home da grandi conquistatori, ma purtroppo era stato un Campionato amaro e avido di risultati come squadra maschile. Grandi aspettative e i denti affilati c’erano, ma era mancato il dolce pane agonistico. L’unico a essere tornato a casa con un ottimo risultato nel kata maschile era stato Nicola, vicecampione europeo dietro il russo Votiakov. Ricordo l’abbraccio post premiazioni, i sorrisi, le foto, il sayonara party… ricordo tutto. E se ci penso, sento ancora quell’amarezza inconfondibile delle gare andate male. Nonostante l’argento europeo, vedevo Nicola pensieroso, quasi triste. Come se provasse una sorta di colpevolezza infondata per il risultato non raggiunto a squadre. Viveva un’intensa responsabilità nei confronti del suo ruolo nella squadra e personalmente capivo bene le sue emozioni.
Dal canto mio, lo ammetto… la delusione era lacerante e avrei dato volentieri forfait alla Coppa Shotokan che si svolgeva solo sei giorni dopo il Campionato. Continuavo a rivivere nella mente l’Unsu fatto a squadre, vedevo i punteggi e pensavo dove avessimo sbagliato e se avremmo avuto un’altra occasione. Mi ero perso nella mia mente, probabilmente per un attaccamento eccessivo a un risultato che non si era manifestato. Il mio Maestro Riccardo Frare aveva capito tutto…nel dojo, in un attimo, il suo solito sorriso aveva lasciato spazio a un’espressione decisa. Mi disse tante cose, ma un frase mi colpì diritto al cuore: “Molla se vuoi, non andare alla gara. Ma se molli ora ti darai sempre una scusa per mollare”. Ippon.
Al sabato successivo ero pronto nel mio karategi al Palazzetto di Zola Pedrosa. Coppa Shotokan… gara durissima, ma bellissima… la gara giusta per sentire tra i denti quel giusto sapore di sangue di cui si ha bisogno quando si sta vivendo un’anemica delusione.
Durante il consueto riscaldamento iniziano a chiamare le pool. Chiamano anche la mia. “Accidenti” penso “sono in pool con Nicola!”. Faccio due conti e arrivo in fretta alla conclusione che un posto su due per la semifinale a 8 è quasi sicuramente occupato. Non so se lui ricorda cosa abbia pensato alla chiamata delle pool, ma mi piace poeticamente pensare che anche lui abbia pensato “Accidenti sono con Ale”. Ci troviamo vicini in fila per il saluto di rito: la pool è tosta. Lui si gira e mi dice: “Ale, a qualsiasi costo… avanti tu e io”. Lo guardo e vedo che tiene veramente a che passiamo entrambi il turno. Una persona normale può pensare che se vinci facile, hai comunque vinto e, per i semplici numeri, è davvero così. Aumenti palmares, visibilità e probabilmente anche l’ego. Ma Nicola non era così. Lui voleva vincere difficile. Voleva la battaglia.
Rappresenta costantemente il suo motto “Vince sempre chi sorride”.
La pool comincia. Passiamo entrambi tutti i turni di Heain e finalmente ci incontriamo. L’arbitro centrale estrae il sentei: Kankudai… insomma, un incubo per gli agonisti. Sì ci sarà da combattere. Lo sento vicino e in una attimo elaboro la tattica per provare a batterlo. “Devo stargli davanti” penso “e bruciarlo a ogni tecnica”. Il tutto si svolge nella mia testa in dieci secondi tra saluto e yoi. Partiamo all’ajime. Sparo tutto quello che ho, oltre ogni limite. Me lo vivo a tutta questo Kankudai, esattamente come l’ho pensato nella mia testa in quei dieci secondi. Lui vicino tiene un ritmo più basso, ma è come un metronomo, non molla un centimetro. Io continuo ad alzare il ritmo e pestare sull’acceleratore, lavorando sui cambi di direzione e di velocità. Arrivo all’ultimo yokogeri dopo uchiuke-renzuki, ma la gamba non si alza. Mi sembra di pesare dieci tonnellate. Lui intuisce la difficoltà e mi supera come il vento. Penso “No… non ti mollo!”. Lo riprendo due tecniche più avanti e finiamo il kata in sincronia, come fosse una prova a squadra. Yame! Si alzano le bandierine… 3 a 2 per lui. Usciamo dal tatami, ci salutiamo e abbracciamo. In quel momento penso all’onore che ho avuto di battermi con una atleta così. Il fiato è corto per entrambi, siamo piegati da una kata in cui abbiamo dato tutto.
Poco dopo lui si conquista la semifinale a 8 con una altro Kankudai, io purtroppo passo dai ripescaggi, anche io con un altro Kankudai e subito dopo Jion. A bordo tatami Nicola, completamente fradicio, mi incita con i suoi tipici “forza!” e “dai ora”. Per lui non esiste Triveneto e Toscana. Per lui esistono squadra e amicizia. Mi incita quasi a ogni tecnica e, nonostante io abbia la terribile sensazione che i muscoli mi si stacchino dalle ossa, esco dai ripescaggi arrivando in semifinale a 8. Noi due avanti, come ci eravamo promessi. Chiamano i nostri nomi, ci abbracciamo ancora e ci diciamo “avanti così…”. Prima delle semifinali con Gankaku e Bassai-sho ci incontriamo più volte per il palazzetto. A un certo punto mi si avvicina e mi fa: “Oh Ale… non mi si piegano più le gambe. Con quel Kankudai mi hai ucciso”. Io rido soddisfatto, ma la realtà è che sono più cotto di lui. Alla fine della giornata lui vince la Finale Master. Io arrivo secondo alla Finale Shotokan con il grande privilegio di averlo avuto nel mio angolo durante il mio Unsu e aver avuto a ogni passaggio duro i suoi incitamenti. Quello a bandierine è stato il nostro primo incontro… e anche l’ultimo. Il mio più bel Kankudai.
Nicola, esempio di Moichido. Capitano di cuore.
Un mese dopo, a gennaio 2017, Nicola viene a trovarmi a Gorizia. Finiamo a rivedere sul divano il video di quel Kankudai. Mi da una pacca e mi dice sorridendo “Ale io non mi sarei dato la bandierina. Hai vinto tu”. È sincero… e questo è tutto per me.
Passano i mesi. A ogni Raduno della Nazionale del 2017 prima di ogni kata a squadre alla Yudanshakai sussurra a me e Cek [Francesco Rocchetti NdR]: “Ragazzi… UNO!”.
A settembre 2017 siamo al Mondiale WSKA a Treviso. La domenica mattina sul gruppo della squadra ci arriva un messaggio che conclude così: “Oggi nessuno deve ostacolarci, nessuno si può permettere di affrontarci e andare avanti. Forza ragazzi. Insieme!”. Alla sera dello stesso giorno stiamo cantando l’Inno di Mameli sul gradino più alto del kata a squadre. Questo è Nicola. Un ragazzo molto pacato, mai una virgola fuori posto, mai una protesta. Rappresenta costantemente il suo motto “Vince sempre chi sorride”. Negli anni l’ho visto vivere molte emozioni forti, positive e negative, ma non l’ho mai visto né scadere nell’arroganza, né rinunciare a dare il meglio di sé. Un atleta umile, ma con un grande fuoco affine e complementare al mio. Nicola, esempio di Moichido. Capitano di cuore.
Ho voluto condividere questa esperienza per provare a trasmettere ciò che si prova a vivere con cuore una squadra. Nell’alternarsi continuo delle stagioni ci si rende conto che non è l’individualità a contare, ma la compagnia, il gruppo e il poter condividere con qualcuno l’aspetto più puro della pratica. La squadra non ti fa sentire mai solo. Hai sempre uno sguardo, una mano, una parola su cui contare. La squadra è altruismo, umiltà condivisa, sacrificio per gli altri. Il capitano incarna questo, affinché un domani un altro possa prendere il suo posto e tramandi questa sottile tradizione: tre persone che per un attimo, o forse per tutta la vita, diventano uno.
È una grande responsabilità, nei confronti dei compagni e nei confronti dei più giovani, affinché camminino con rettitudine e rispetto nei confronti di tutti gli altri. Un domani toccherà a loro tramandare il principio che il karate, a ogni incontro, crea unità e non c’è spazio per ego e arroganza. La squadra, alla fine, diventa un principio di vita quotidiana.
La strada è lunga e l’agonismo è soltanto una piccola parte di questo meraviglioso viaggio chiamato Karate. Un viaggio dove ogni incontro è un primo incontro in quanto irripetibile. Un viaggio d’amore verso “casa”, insieme a dei buoni fratelli di cammino. Un viaggio verso la cosa più importante da incontrare: te stesso.