Mi colpisce l’espressione di un giovane atleta. Ha già conseguito importanti successi agonistici e si è sempre distinto per grinta, assiduità e determinazione. Ma oggi il suo volto tradisce una lotta interiore che non mi è difficile interpretare…
Venerdì, ore 19:10. Fine dell’allenamento per chi scrive.
Mentre il maestro si spende generosamente per spiegare ai nuovi tecnici le possibili implicazioni di una certa variante del bunkai di Jion, alcuni di noi cercano il più discretamente possibile di guadagnare la via degli spogliatoi per scrivere la parola “fine” su una settimana di karate intensamente vissuta, che per me ha incluso anche la faticosa trasferta mensile di mercoledì a Monza, fra tangenziale nord impazzita e rimpianto per essermi perso la partita infrasettimanale dell’Inter.
In questo clima da “8 settembre” (alludo all’8 settembre 1943, quando fu firmato l’armistizio e molti soldati gettarono l’uniforme e tornarono a casa… solo per trovarla occupata dai tedeschi) salgono sul tatami gli allievi del corso dell’ora 19-20 che, come al solito, inizieranno la lezione con dieci minuti di ritardo e con altrettanti la termineranno. In questi momenti, in una palestra seria, ma non militarizzata come quella in cui ho la fortuna di allenarmi, è consuetudine scambiarsi un breve saluto e a volte una battuta scherzosa sull’umore del maestro, se questo non è già stato sufficientemente chiarito dai comandi impartiti a voce altissima o invece sussurrati, dalle correzioni fatte con un sorriso indulgente oppure con la grinta del sergente istruttore di un gruppo di reclute frastornate.
In quel viso così giovane ci sono ombre di preoccupazione e persino lampi di disperazione.
Fra di loro, tutti più o meno sorridenti e impegnati negli ultimi esercizi di riscaldamento, stasera mi colpisce l’espressione di un giovane atleta. È tra i più promettenti, ha già conseguito importanti successi agonistici a livello nazionale e si è sempre distinto per grinta, assiduità e determinazione. Ma oggi il suo volto tradisce una lotta interiore che non mi è difficile interpretare (alla sua età è difficile adottare la maschera impenetrabile che qualcuno pretenderebbe dagli adepti di un’arte marziale). In quel viso così giovane ci sono ombre di preoccupazione e persino lampi di disperazione, come se quel ragazzo si preparasse davvero a un combattimento per la vita o per la morte. Intuisco che forse vorrebbe essere altrove, a festeggiare a casa o con gli amici la fine della prima settimana di scuola, ma il suo senso del dovere e, probabilmente, l’impegno preso col maestro e coi genitori, l’hanno trascinato qui ad affrontare la sua ora di passione.
Il suo volto dai tratti ancora infantili me ne richiama un altro, quello di una studentessa undicenne della scuola internazionale nella quale ho insegnato fino alla pensione, il giorno dello Swimming Gala, l’annuale gara di nuoto della scuola, ordalia pressoché obbligatoria per tutti, alunni e insegnanti. La ragazzina in questione, più gracile e minuta delle sue compagne di squadra, aveva terminato, senza infamia e senza lode, la sua frazione a stile libero, e ora se ne stava lì, gocciolante e tremante di freddo nel suo accappatoio, con l’espressione più sofferente che eroica di un San Sebastiano trafitto dalle frecce del duty, il dovere di competere al quale non le era stato possibile sottrarsi nonostante la timidezza, la paura del confronto e l’avversione per le prove ginniche. E io, insegnante responsabile del “benessere” del suo team, non sapevo se complimentarmi con lei, consolarla o cercare di farla ridere (ricorsi infine a quest’ultima strategia).
Stima per questo millennial che ha scelto (o accettato) di rinunciare alle facili lusinghe del relax iper-tecnologico.
Esco mentalmente dalla piscina e ritorno sul tatami, dove il maestro sta sapientemente ordinando gli allievi appena entrati come pezzi sulla scacchiera per iniziare la lezione successiva, che alcuni miei compagni di corso riescono stoicamente a sommare a quella precedente. Mentre apro la porta dello spogliatoio, getto un’ultima occhiata al giovane atleta di cui sopra e constato che, a quanto pare, ha felicemente superato il tormento interiore e con rinnovata concentrazione si prepara a seguire i comandi, “whatever it takes”. Di modo che mi resta in gola la fatidica domanda “Ma chi te lo fa fare?” e rimane solo la stima per questo millennial che ha scelto (o accettato) di rinunciare alle facili lusinghe del relax iper-tecnologico per apprendere la famosa “arte della mano nuda dei mari del Sud” (cit. Funakoshi senior), nell’ambiente meno accomodante disponibile sulla piazza. Kudos! Onore a lui! Come dicono gli americani quando vorrebbero imitare i classici.