C’è una categoria particolare di karateka che mi ha sempre incuriosito: quella dei collezionisti.
C’è una categoria particolare di karateka che mi ha sempre incuriosito: quella dei collezionisti. Il collezionismo è contraddistinto dal bisogno quasi compulsivo di accumulare oggetti o ricordi da catalogare, incollare in un album, mostrare orgogliosi ai visitatori e tramandare inutilizzati ai nipoti.
Il collezionismo è contraddistinto dal bisogno quasi compulsivo di accumulare oggetti o ricordi da catalogare.
Nel campo storico, ad esempio, il collezionista si distingue dallo studioso perché il primo esibirà, per esempio, una raccolta di migliaia di soldatini di piombo delle più disparate epoche e nazionalità, dei quali probabilmente saprà dire soltanto pochi dati esteriori (“È un ussaro polacco nella battaglia di Kluszyn”); mentre il secondo, più sensatamente, limiterà il proprio campo d’interesse e di competenza a un periodo ben limitato (la guerra dei Trent’anni, l’età di Giolitti), sul quale però approfondirà la conoscenza con lo studio di fonti primarie e secondarie, la raccolta di testimonianze, la ricerca sul campo e via dicendo.
Nell’ambito delle arti marziali la tendenza al collezionismo si manifesta in forme diverse. Nell’epoca eroica dei miei esordi spopolavano i collezionisti di kata, noti per vagare di stage in stage alla ricerca indefessa della “forma” mancante. In riunioni semi-clandestine, tipo carbonari, si scambiavano poi le preziose chicche imparate chissà dove e chissà da chi.
Mi ricordo con grande tenerezza nello sforzo di imparare in questo modo il kata Meikyo dal maestro Pajello nei quattro metri quadrati dell’ufficio di Gastone al CSKS di via Maffei. Oggi, con la diffusione di filmati marziali su Internet, il collezionista di kata è entrato nell’anonimato, ma lo si riconosce ancora per le domande da “primo della classe” che con aria innocente rivolge al proprio maestro: “Ma questa tecnica si esegue in nekoashidachi o in kosadachi? Perché mi sembra che il maestro Asai… ”.
I collezionisti di kata, noti per vagare di stage in stage alla ricerca indefessa della “forma” mancante.
Più tardi, quando judo e karate hanno perso il monopolio delle arti marziali praticate nel nostro Paese, è nata una nuova tipologia di collezionista, quella dell’accumulatore infaticabile di discipline da combattimento, alla ricerca, perennemente frustrata, di quella “più efficace”. Costui, versione post-moderna del Siddharta di Hesse, avendo esaurito in due o tre anni di studio “matto e disperatissimo” (avvenuto per lo più nel corso delle scuole elementari) tutto lo scibile del karate Shotokan e avendolo, alla tenera età di dieci anni, giudicato “troppo duro e poco realistico”, passa gli anni delle medie nell’apprendimento contemporaneo di stili cinesi “interni ed esterni” (tipicamente tai chi e wing chun), per poi approdare trionfalmente, ma brevemente adun’originale sintesi di Kick boxing, Muay Thai e Krav Maga. Finalmente sazio, passa alla bocciofila locale, probabilmente tramandando ai compagni di briscola il suo formidabile patrimonio di conoscenze.
Tuttavia, il collezionismo più diffuso e oserei dire inflazionato al giorno d’oggi nel campo delle arti marziali è quello dei Dan e delle qualifiche. Raramente affligge chi si trova, per perizia e per decenni di esperienza, ai vertici di un’organizzazione: molto più frequentemente colpisce i “quadri intermedi”, onesti mestieranti senza infamia e senza lode, con un discreto passato agonistico e una dignitosa carriera da arbitro o da dirigente locale.
Improvvisamente, senza una motivazione chiara e intelligibile, ma adducendo incomprensioni o ingiustizie subìte, essi emigrano da una federazione nota a un’altra di più recente fondazione, sorta, il va sans dire, “per unificare il karate italiano”, naturalmente mediante un’ennesima scissione. Qui diventano presidenti di una fantomatica commissione tecnica, o di stile, o di insegnanti, o di kumite sambon, o di karate tradizionale, et voila, il passaggio di dan è garantito.
Essi emigrano da una federazione nota a un’altra di più recente fondazione.
La procedura può ripetersi ad libitum, ma il numero delle “federazioni” disponibili non è illimitato quanto la sete di riconoscimento del nostro collezionista. Per fortuna loro, nel nostro bel Paese c’è libertà di associazione, garantita addirittura dalla Costituzione, per cui il nostro ex-4° dan, ora 5° Dan FEKEDS (Federazione europea karate e discipline simili… Nome inventato ad arte, ma, chissà, potrebbe ispirare la prossima scissione!), approda adesso a un Ente di promozione sportiva (naturalmente riconosciuto dal CONI) nel quale, incassato un altro Dan, è libero di organizzare corsi, esami e naturalmente corsi istruttori.
Siamo al capolinea? Non giurateci: l’inventiva del nostro eroe non ha limiti. Con tutto il sapere marziale accumulato egli può ora proclamarsi unico rappresentante italiano di uno sconosciuto stile praticato in sei o sette palestre di Okinawa e, di conseguenza, 6° Dan di Ueki-Tabuki-Kinuki Ryu (altra sigla inventata, ma ancora disponibile), o addirittura fondatore di un nuovo stile (in questo caso il 10° Dan è di rigore).
Sembra una barzelletta, ma è suppergiù il cursus honorum di un mio ex-allievo pieno di spirito di iniziativa, bocciato all’esame di 1° Dan in quel di Garda, nel lontanissimo 1980, e adesso (solo) 8° Dan di una disciplina vagamente esoterica e iniziatica. Dall’alto del suo grado egli può ora guardare con sufficienza e compatimento il mio 5° Dan, strappato col sudore e coi denti in cinquantadue anni di pratica.