La formazione di Karate Tradizionale FIKTA, con le famose 3 K, che ho avuto la fortuna di ricevere, mi ha reso semplice seguire le lezioni e a Tokyo mi ha fatto sentire molto “a casa”.
KarateDo Magazine ha chiesto a Thomas Rossetto, istruttore FIKTA 4° dan, di raccontarci com’é stata la sua esperienza a Tokyo, dove ha trascorso il mese di gennaio 2023 allenandosi in un dojo giapponese.
In questo momento mi trovo in Giappone, l’anniversario del compimento dei miei quarant’anni. Essendo la pratica del karate una via che mi accompagna sin da quando ero in prima elementare, ho deciso di festeggiare regalandomi un’esperienza di pratica nel posto che più mi entusiasmava: Tokyo, là dove è nato lo Shotokan lo stile che amo e che pratico.
A dire la verità già nel 2019 feci un primo viaggio esplorativo di dieci giorni, punto che da lì a breve sarebbe iniziata la pandemia da COVID e tutto quello che ne è conseguito. Anche solo quei dieci giorni, in cui mi allenai con l’ottima compagnia del maestro Giampaolo Ghizzardi, furono sufficienti per scuotere alcune certezze e consolidare invece ciò che già in passato avevo appreso grazie al karate occidentale e italiano in particolare.
La cortesia, il rispetto, la continua attenzione nei confronti del sensei, sono patrimonio culturale.
Attualmente la mia opinione non è cambiata. Qui la pratica del karatedo – tranne alcuni piccoli dettagli come posizione delle mani, caricamenti e terminologia delle tecniche – è sia rivoluzionaria, sia assolutamente tradizionale. Si ha la sensazione di essere nel flusso del karatedo, che continua dall’arrivo di Funakoshi Shihan a inizi Novecento a Tokyo. Contemporaneamente, si sente che l’intensità della pratica e l’attenzione al futuro della pratica mondiale è sicuramente più forte che altrove… passato e futuro sono entrambi presenti. Così, come piace a me.
La formazione di Karate Tradizionale FIKTA, con le famose 3 K, che ho avuto la fortuna di ricevere, mi ha reso semplice seguire le lezioni e mi ha fatto sentire molto “a casa”. Ho trovato qui una pratica costante, quotidiana, con giusto equilibrio fra significati e movimenti.
C’è qualcos’altro che mi ha e mi sta affascinando. Prima di venire in Giappone associavo al karate e ai vari dojo in cui ho praticato, un particolare sapore, una certa atmosfera, che chiamo profumo di Karate.
In Giappone ho “scoperto” che gli aspetti che in Italia associavo al karate qui sono invece profondamente legati alla cultura giapponese: la pratica del karate non è per nulla dissimile dalla pratica di qualunque altra disciplina. La cortesia, il rispetto, la continua attenzione nei confronti del sensei, sono patrimonio culturale del popolo giapponese, mentre io le ho conosciute come caratteristiche del mondo del Karate. Ho visto dei commessi in un supermercato allontanarsi dalla loro postazione per il cambio turno e fare l’inchino come saluto prima di uscire dalla loro postazione di lavoro. Nessuno guardava queste persone, ma il senso di rei-gi (quarto punto del Dojo kun) qui l’ho visto in un supermercato. Potrei fare moltissimi altri esempi, ma la pratica del karate è molto più semplice e accessibile per chi appartiene a questa cultura. Sembra un’ovvietà, eppure questo mi ha chiarito molti punti legati alla trasmissione delle conoscenze da maestro ad allievo all’interno di un sistema culturale non giapponese come quello da cui provengo. Per un bambino italiano kokutsudachi è una parola senza senso, esotica. Per un bambino giapponese ha un significato immediato che non necessita di essere spiegato.
Ma cosa cambia concretamente durante la pratica? Riassumo qui brevemente alcuni punti per me particolarmente interessanti.
Innanzitutto, l’esecuzione tecnica non è così ricca di spiegazioni e dettagli, si pratica spesso davanti a uno specchio, per imitazione, e seguendo il Sensei. Lo stesso ruolo del Sensei è in funzione della pratica e non la pratica in funzione del Sensei, come purtroppo ho visto spesso accadere. Ho trovato il ruolo finalmente diminuito rispetto alla nostra concezione occidentale di capo, padrone e detentore di verità assolute, e (molto spesso) autoreferenziate.
Qui il Sensei può cambiare, lezione dopo lezione e ora dopo ora, mentre è la pratica stessa, il calore e il sudore di un corpo, via via sempre più allenato, a essere la costante – numerosi fabbri si turnano per battere l’acciaio che diventerà una katana –.
La responsabilità è negli esercizi e nella corretta esecuzione, non nella voce che dà i comandi. Potremmo dire che il vero maestro è la pratica stessa, in giapponese keiko. Come un fuoco che va continuamente alimentato con legna, esercizi, kihon, kata, kumite. Non importa chi alimenta questo fuoco, purché non si spenga.
Certo, la selezione per poter diventare un Sensei è severissima e non è possibile mettere chiunque alla guida, ma gli stessi maestri sono al servizio e nessuno di loro si è presentato a me con arroganza. Tutti molto umili e dediti al loro lavoro quotidiano, il loro scopo è tramandare il “fuoco” alle generazioni future. Sono persone come me, a volte stanche, a volte di cattivo umore, a volte sorridenti e particolarmente gioiose. In tutte queste variabili, sono costanti e quotidiani il kime, lo spirito combattivo e la forza d’animo di spingere se stessi e il gruppo sempre un po’ più in là.
La responsabilità è negli esercizi e nella corretta esecuzione, non nella voce che dà i comandi.
Un altro aspetto interessante è che è molto raro che ci sia, per come ho potuto conoscere in questo mese, il praticante saltuario o il mono/bisettimanale. Quando una persona decide di praticare karatedo, sia esso un bambino o un adulto, pratica un’ora al giorno, per tutto l’anno.
Mi sono allenato quotidianamente con Ryuki Sugino, un ragazzo di quindici anni, sempre gioioso e solare. Figlio del ben più famoso Takumi Sugino, centrale della famosa Nazionale giapponese composta da Arimoto e Soma che nel 2012 vinse i mondiali a Parigi con il kata Unsu. Chiunque conosce quella splendida esibizione della squadra appartenente alla scuderia dell’eccellenza di Kagawa Shihan.
Questo ragazzo sempre sorridente pratica tutti i giorni dal lunedì al venerdì due/tre ore di karate, oltre a partecipare ai raduni della Nazionale giapponese di cui è già membro giovanile e che a dicembre 2022 ha vinto gli AKF (Asian Karate Federation) di kata individuale.
Allenandomi fianco a fianco, non ho trovato segreti “magici”. Le correzioni che riceveva e che ricevevamo tutti erano abbastanza consuete, eppure, sempre esatte: maggior hikite, attenzione ai caricamenti e ai ritorni dei calci, spingere bene la gamba posteriore nelle posizioni… e così via.
Allora, dov’e il segreto? Il segreto io l’ho visto nella mole di lavoro, nella densità di ripetizioni. All’interno della medesima lezione c’è tanta pratica da far impallidire un karateka amatoriale. La pratica del kihon riempie abbondantemente il 50-60% di una singola lezione da un’ora.
Centinaia di calci e di pugni, centinaia di combinazioni, con tempi di recupero di 10-15 secondi, giusto il tempo per una battuta. E proprio qui sta il segreto numero due: un clima amichevole, sorridente, in cui ci si incoraggia gli uni con gli altri per portare a termine l’esercizio. Quando il corpo cede e sente la fatica incombere, è naturale andare in un atteggiamento di protezione e puntare i piedi per frenare. Nel karate del passato recente (per qualcuno ancora quotidiano?), chi reagiva così veniva aggredito e spesso il clima nella pratica era ostile e minaccioso. Questo irrigidiva ancora di più il corpo, impedendo all’energia (KI) di fluire come acqua. All’Hombu Dojo JKS ho visto accadere invece il contrario. L’acido lattico impalla le gambe, i crampi e la stanchezza impediscono un’esecuzione pulita e il sudore brucia negli occhi. In questo particolare clima si sorride e ci si incoraggia. Ecco allora che il corpo si “apre”, perché sente che i messaggi d’allarme che riceve a causa della stanchezza non sono minacciosi.
L’atmosfera nel dojo è serena, amichevole e con un forte spirito di squadra. “Gambatte! Moikkai!” incita il Sensei sorridendo, mentre lui stesso non ha mai smesso di eseguire le ripetute che ci ha proposto. Credo che il nostro corpo possa abbondantemente tollerare migliaia e migliaia di ripetizioni, tanto quanto un maratoneta è in grado di correre per tutto il giorno. Ciò che danneggia e infortuna il corpo è un clima emozionale esasperato, teso, minaccioso e carico di rigidità e pensieri aggressivi. Un clima di questo tipo unito a migliaia di ripetizioni genera all’interno delle articolazioni un forte attrito che va a rendere la pratica del karate assolutamente non salutare. L’energia non scorre, perché ci sono paura e negatività nell’aria. Una volta ho sentito Kagawa Sensei dire “Quando hai male, sorridi”, cioè non bloccare la tua energia.
Le posizioni non sono assolutamente esasperate, ma si approfondiscono verso il basso con il rafforzamento della struttura muscolare. Quindi, posso scendere con la posizione tanto quanto la mia struttura muscolare e il mio cuore reggono lo sforzo, impedendomi di assumere posture scorrette e dannose per schiena e per le articolazioni. Una forte struttura muscolare, data da un allenamento corretto e rispettoso, genera una protezione dagli infortuni, spesso dovuti a fine-corsa articolari causati da una muscolatura non allenata.
Perciò, sono le ripetizioni il problema dei danni fisici dati dalla pratica del karatedo (come si sente spesso dire in occidente), oppure è un particolare clima di rigidità psico-emotiva che attiva il sistema nervoso vegetativo portando il corpo in uno stato di perenne allerta e minaccia?
Io tutto questo non l’ho trovato qui a Tokyo. Ho praticato alla sessione del mattino e alla sessione della sera per il mese di gennaio, con intensità alta, senza accusare alla fine del percorso alcun malessere fisico, nonostante sia partito dall’Italia con un ginocchio a volte dolorante e una spalla con un passato infiammatorio importante. Al contrario, godo di una rinnovata sensazione di tono e benessere posturale. Il sonno, inoltre, è migliorato.
Quando una persona decide di praticare karatedo, sia esso un bambino o un adulto, pratica un’ora al giorno, per tutto l’anno.
Concludendo, ho trovato pratica, sudore e sorrisi. Moltiplichiamo questo per cinque giorni alla settimana, tutto l’anno per una decina d’anni, e avremo i primi risultati che vediamo nei praticanti nipponici.
Tutto ciò mi porterò a casa da questa esperienza e il sorriso pieno di gocce del mio sudore, dei miei Sempai e dei diversi Sensei che si sono succeduti alla guida delle varie lezioni.
Non importa chi sei, importa solo che il fuoco della “sacra pratica” rimanga acceso col contributo di tutti!
Vorrei infine ringraziare la JKS BUDO ITALIA per avermi dato l’occasione di allenarmi qui e di fare questa meravigliosa esperienza.
Domo arigato gozaimashita!