Il M° Carlo Fugazza è riuscito a farmi innamorare dei kata e per contraccambiarlo ho pensato di condividere con i lettori alcune sue riflessioni espresse nelle pause degli allenamenti.
Nonostante mezzo secolo di pratica, temo di essere un karateka più “di penna” che “di spada”, e le poche cose buone da me dimostrate sul tatami hanno a che fare con la grinta e l’ostinazione piuttosto che con la tecnica. Ciò nonostante, il maestro Carlo Fugazza è riuscito a farmi innamorare dei kata e per contraccambiarlo ho pensato di condividere con i lettori di KarateDo Magazine alcune sue riflessioni che, espresse nelle pause degli allenamenti, hanno nutrito il nostro spirito oltre a dare momentaneo sollievo ai nostri muscoli contratti e doloranti.
I kata del karate potrebbero essere definiti come “trascrizioni stenografiche” di altrettanti combattimenti.
“In un kata quello che non si vede è più importante di quello che si vede”.
Come è noto, i kata del karate potrebbero essere definiti come “trascrizioni stenografiche” di altrettanti combattimenti. A differenza delle “forme” del kung-fu, i kata non contengono l’intera sequenza delle parate e dei contrattacchi: alcune parti mancano, “sono invisibili”. Un esempio banale: cosa succede in Heian shodan ai quattro avversari dai quali ci difendiamo con shutouke nella parte finale del kata? È qui che subentra la parte applicativa che, a differenza della forma, è libera e molteplice, anche se mai arbitraria.
Per quale motivo alcune parti dei kata sono omesse, oppure modificate, rispetto alla loro applicazione pratica? La tradizione ci dice che certe tecniche erano troppo pericolose per essere insegnate a una platea troppo vasta. Un esempio certo (perché il cambiamento è avvenuto in epoca recente ed è attestato dai maestri) è il primo Pinan di Itosu (corrispondente al nostro Heian nidan), nel quale il suo allievo Hanashiro ha sostituito le tecniche con la mano aperta con dei pugni, per consentire una pratica sicura agli studenti delle scuole di Okinawa.
Nei kata così modificati abbiamo quindi un contenuto evidente (destinato ai più) e un contenuto latente (cioè nascosto), riservato a pochi allievi di cui il maestro si fidava. Questa distinzione vale soprattutto per i più antichi kata superiori, mentre in teoria non dovrebbe applicarsi ai Pinan, inventati modernamente dal maestro Itosu (o da lui estrapolati da un ipotetico kata Channan sul quale esiste solo una tradizione orale) come “ginnastica marziale” per la pratica nelle scuole.
Eppure, come abbiamo visto per Pinan shodan/Heian nidan, anche negli Heian abbiamo dei punti poco chiari, dei passaggi che, applicati così come sono, hanno poco senso.
Il maestro Fugazza, in una lezione in cui ha introdotto i “Ko-no kata”, ha affrontato tre importanti “nodi applicativi” di Heian shodan:
- La sequenza gedanbarai-oizuki avanzando sembra inapplicabile perché, una volta avvenuto il contatto tra il nostro braccio sinistro e il braccio (o la gamba) destro dell’avversario, ci troviamo a corta distanza e non c’è spazio per avanzare in oizuki. Le soluzioni al dilemma sono varie, a seconda del livello del praticante. A livello di base, dopo la parata sinistra, si può contrattaccare con gyakuzuki destro per costringere l’avversario ad arretrare e successivamente si raddoppia con oizuki o con oikomi zuki. A un livello più elevato, dopo gedanbarai si può effettuare kirigaeshi sul posto, acquisendo così la velocità e la distanza giuste per oizuki destro. Oppure (ed è la soluzione proposta dal ko-no kata), invece di avanzare si indietreggia (fisicamente, ma non con lo spirito) e contemporaneamente si colpisce, sempre di destro. L’effetto del colpo è amplificato dallo spostamento in avanti dell’avversario, come avviene in combattimento libero con le tecniche portate deai.
- La sequenza dei tre ageuke eseguiti avanzando (una sequenza simile si trova anche nei kata Jion e Jitte) merita anch’essa una spiegazione: perché parare avanzando? A livello elementare (quando si spiega il kata a una cintura bianca), si può naturalmente eseguire la parata indietreggiando, come suggerisce il Ko-no kata. Ma se si vuole mantenere la forma del kata, l’age-shuto sinistro che precede il primo ageuke ci segnala una presa (come quasi sempre quando troviamo tecniche a mano aperta), dopo la quale l’ageuke destro si trasforma in un attacco con l’avambraccio alla gola, o sotto l’ascella, o al gomito dell’avversario.
- Veniamo ai quattro shuto finali: è lecito immaginare quattro difese contro avversari provenienti da direzioni diverse, seguite da altrettanti contrattacchi “invisibili” col pugno o con la mano aperta (gyakuzuki o nukite diretto a un kyusho, o punto vitale); ma è altrettanto lecito interpretare quello shuto-uke come uno shuto-uchi, un attacco diretto preventivo al collo dell’avversario.
“Trovare il sapore nelle cose che non hanno il sapore”.
In un’altra pausa del corso mensile di Kata Bunkai a Monza, il maestro Fugazza ci ha raccontato un aneddoto che, a suo parere, rispecchia l’incompresa profondità della conoscenza di un kata e del karate in genere. Dopo uno stage col Maestro Shirai, lui e altri allievi erano seduti a cena; il Maestro notò che Carlo aveva avanzato gran parte della pietanza contenuta nel piatto e gliene chiese la ragione. “Maestro, non sa di niente” fu la sua sincera risposta. Al che il Maestro Shirai replicò esortandolo a “trovare il sapore anche nelle cose insipide“.
Per il maestro Fugazza questo invito ebbe l’effetto di un’illuminazione, che non si applicava solo al cibo, ma al senso della vita: è facile per tutti trovare il gusto delle cose piccanti, come è relativamente agevole capire superficialmente il contenuto palese, banale, di una tecnica di karate o del kata Heian Shodan, ma per avere una conoscenza approfondita e completa di una cosa occorre comprenderne e assaporarne il “significato nascosto”, la faccia oscura della luna. È facile innamorarsi di Unsu o di Gankaku (altra cosa naturalmente è saperlo eseguire bene), ma solo con tanta esperienza e tanta applicazione si può apprezzare il “gusto” e la profondità di un kata apparentemente semplice e “insipido”come Heian shodan.
Un kata, ci dice il maestro, è come un cerchio, diviso in quattro settori circolari. La sua esecuzione normale, partendo verso sinistra (omote) rappresenta solo un quarto della conoscenza del kata.
Bisogna saperlo eseguire anche verso destra (“ura“), per completare il semicerchio superiore. Inoltre, bisogna saperlo eseguire indietreggiando invece di avanzare (“ko-no-kata“), come spesso bisogna fare nella sua applicazione. Per completare il cerchio, occorre infine eseguire il ko-no-kata verso destra (ura). Solo allora si potrà dire di conoscere quel kata.
Il Maestro Shirai replicò esortandolo a “trovare il sapore anche nelle cose insipide”.
Per crescere di livello non serve tanto “allargare” la conoscenza e la comprensione della materia (in fondo i kata Shotokan sono “solo” 26), quanto approfondirla: nelle quattro versioni descritte, i 26 kata diventano 104! Solo “scavando” nei kata si può continuare a migliorare la qualità della propria esecuzione: quando una cintura nera di grado avanzato esegue un kata “semplice” come un Heian, un osservatore dovrebbe essere in grado di apprezzare il livello più alto della sua prestazione.
“Non so bene” – ha concluso la digressione il maestro Fugazza – “cosa voglia dire eseguire Heian Shodan a livello di 8°dan, ma mi sforzo di capirlo giorno dopo giorno”.