Mi propongo qui di discutere e commentare l’interessante pezzo “Lo Shotokai non è uno stile”.
Quando ci si infervora nel sostenere un’idea o una tesi – uno stato d’animo quasi inevitabile in chi crede in qualcosa – può accadere di cadere in contraddizione con se stessi. È capitato molto spesso a me (ne sa qualcosa la redazione di KarateDo Magazine, che si vede talvolta recapitare tre versioni dello stesso articolo) e sospetto che sia accaduto anche al bravo Matteo Muratori al momento di redigere il suo interessante pezzo Lo Shotokai non è uno stile, che mi propongo qui di discutere e commentare.
Tanto per cominciare è sorprendente che l’autore, convinto come dichiara di essere che lo Shotokai non sia uno stile, si definisca poi nel suo profilo “praticante di stile Shotokai” e attualmente “istruttore di questo stile”. Ma mi pare che il senso di questa (apparente?) contraddizione sia far propria l’idea, da lui attribuita al maestro Gichin Funakoshi, che fosse errato incasellare il proprio karate sotto un’etichetta (che si chiamasse Shotokan o Shotokai poco importa): si trattava semplicemente di “Karate-do”, un ombrello all’interno del quale ogni maestro ha poi dato la propria personale interpretazione.
Inizialmente Muratori compie un passaggio piuttosto ardito, dal punto di vista logico non meno che storico.
Per sostenere questa tesi, inizialmente Muratori compie un passaggio piuttosto ardito, dal punto di vista logico non meno che storico: non solo Shotokai e Shotokan sarebbero denominazioni diverse del karate del M° Funakoshi, ma perderebbe importanza anche la nota distinzione tra Shorin-ryu e Shorei-ryu nel karate di Okinawa, ben anteriore al viaggio di Funakoshi in Giappone.
Egli cita a questo riguardo il maestro Chojun Miyagi (caposcuola del Goju-ryu) il quale nel 1936 dichiarava “sbagliata o poco attendibile” l’esistenza di due diversi ryu nel karate, aggiungendo che, “se anche vi fossero due stili di karate”, si potrebbero classificare “solo in base ai loro metodi di insegnamento”. È un’affermazione singolare e meritevole di approfondimento per chi conosca e prenda in considerazione le notevoli differenze in termini di posizioni, uso delle “armi naturali”, metodi di respirazione, kata, ad esempio tra Goju e Shotokan. Strano che a questo proposito Muratori non citi Funakoshi che, in Karate-Do Kyohan (p. 8), sottolinea invece proprio la differenza tra le due scuole: “La prima [Shorei] dà primaria importanza allo sviluppo della forza fisica e potenza muscolare ed è impressionante nell’espressione della forza. In contrasto, la scuola Shorin è molto leggera e rapida, con rapidi movimenti avanti e indietro, che possono essere paragonati al rapido volo del falco. […] Tuttavia entrambi gli stili sicuramente sviluppano la mente e il corpo, e una non è migliore dell’altra”. Per Funakoshi dunque Shorin e Shorei sono due stili, differenti tra loro.
Non si tratta qui di dare ragione a Funakoshi e torto a Miyagi, ma mi sembra che i due grandi maestri parlino di due cose diverse: al primo preme sottolineare l’unicità del karate, come arte marziale specifica di Okinawa, da valorizzare al di là delle diversità esistenti al proprio interno; il secondo intende invece confermare, all’interno della stessa arte, la presenza di correnti diverse, per suggerire la loro complementarità.
Per fare un paragone forse banale, ma efficace, il crawl, la farfalla, il delfino, la rana e il dorso sono stili diversi della stessa disciplina, il nuoto: nello stesso modo chi osservi l’esecuzione di Tensho, un tipico kata Shorei, con la sua respirazione ibuki e, subito dopo, quella di Enpi, anche se è inesperto di karate non farà fatica a riconoscere che si tratta di due stili diversi.
Ma torniamo alla dicotomia (negata dall’autore) tra Shotokan e Shotokai: sarà anche vero che Funakoshi padre, per usare le parole di Muratori, “lasciasse” usare quasi controvoglia ai propri allievi il termine Shotokan-ryu “seguendo la sua indole taoista” (?) e che, quando lui era ancora in vita, lo Shotokai fosse solo un’associazione di praticanti di Karate-Do: sta di fatto che la separazione tra le due scuole, avvenuta dopo la sua morte, fu radicale e senza ritorno.
Muratori afferma inoltre che l’attuale Shotokai “affonda fortissime radici nell’operato di Gichin Funakoshi” e chiama in causa anche Yoshitaka (“Gigo”) Funakoshi quale coautore della rivoluzione operata dal “suo amico” Shigeru Egami. Tuttavia questa lettura dell’evoluzione dello stile e del contributo dei maestri chiamati in causa, crea qualche perplessità in chi abbia dedicato tempo e fatica alla storia del karate.
È noto che, alla morte di Gichin Funakoshi, i due gruppi che facevano riferimento alla sua figura, vale a dire la Shotokai (Associazione Shoto) e la JKA si divisero sulla modalità delle sue onoranze funebri. Il figlio maggiore del maestro, Giei, aveva deciso di incaricare della cerimonia la Shotokai, ma la JKA (in giapponese Kyokai) rifiutò di parteciparvi se l’organizzazione non fosse stata attribuita a loro, dato che, come argomentò Nakayama, il defunto maestro aveva ricoperto il rango di consigliere tecnico supremo. Naturalmente uno scontro così duro, in una circostanza così inopportuna, non si spiega senza l’esistenza di divergenze profonde antecedenti la morte di Funakoshi (Per la ricostruzione storica del periodo vedi S. Roedner, Breve storia del Karate-Do, Milano 2006).
Non si tratta qui di dare ragione a Funakoshi e torto a Miyagi, ma mi sembra che i due grandi maestri parlino di due cose diverse.
Il capo-scuola della Shotokai era Shigeru Egami (1912-1981), allievo e principale collaboratore di Funakoshi dopo la morte del figlio Yoshitaka e, a partire dal 1955, insegnante di karate all’università Gakushuin.
Egami, afflitto da problemi di salute fin dall’infanzia, si era progressivamente orientato verso un karate morbido, mettendo in discussione le pratiche di allenamento fino ad allora giudicate imprescindibili, quale l’uso del makiwara, e dedicandosi alla ricerca energetica e al misticismo. In particolare studiò la tecnica del toate, o colpo a distanza.
Racconta Masaru Mizushima, consigliere dell’Associazione Shotokai:
“Nel corso dell’allenamento, quando ho toccato per la prima volta la mano del Maestro, ho sudato enormemente senza apparente ragione. Al primo esercizio di combattimento con il Maestro, senza che lui mi toccasse, sono stato proiettato e ho perduto conoscenza, fatto incomprensibile. […] E da tre anni circa, quando mi alleno, mi succede di provocare questo strano fenomeno. È così che ho constatato la profondità del karate-do”.
Il Maestro Egami, parlando della sua conversione a un karate “morbido”, fa risalire l’origine a un episodio accadutogli allo “Shotokan” verso il 1938. Stava allenando il kata Tekki ed eseguendo fumikomi spezzò in due un’asse del parquet nuovo di zecca. Orgoglioso e preoccupato al tempo stesso, informò dell’accaduto Yoshitaka, che lo tranquillizzò elogiandolo per la forza dimostrata. Ma il “vecchio Maestro” (Gichin), presente al colloquio, lo prese in disparte e lo rimproverò severamente:
“Il vero allenamento non deve essere ciò che Lei ha fatto. Nell’allenamento di un tempo, non facevamo cose così brutali. In un vero allenamento, bisogna posare una porta di shoji (intelaiatura in legno su cui è steso un foglio di carta) sul suolo e versarci sopra dell’acqua. Si alleni su questo foglio senza strapparlo…”.
Egami rimise così in discussione l’uso del makiwara e l’efficacia dello tsuki del karate, invitando studiosi di discipline di combattimento a colpirlo con tutta la loro forza. “Incassò” colpi da karateka, pugili, kendoka e judoka e arrivò alla desolante conclusione che “più una persona aveva praticato a lungo il karate, più l’aveva praticato con serietà, meno il suo tsuki era efficace. Il colpo più penetrante era quello dei pugili.”
Egami decise di ripartire da zero, studiando un nuovo modo di concentrare la forza al momento dell’impatto, “perché uno tsuki diventa uno tsuki solo dopo aver toccato il corpo dell’avversario” e come si è detto sviluppò il toate (colpo a distanza), una tecnica che permetterebbe di dominare il proprio avversario senza toccarlo. Uso il condizionale perché il M° Egami è morto e i suoi successori (soprattutto i gruppi dello Shintaido – “nuova via del corpo”), che proseguono sul cammino aperto da lui, non sembrano altrettanto convincenti.
Egami dichiara spesso di continuare sulla via tracciata da Funakoshi (e Muratori ne è convinto); ma se è così, perché, dopo 27 anni di pratica col suo maestro, ha dovuto rimettere tutto in causa e ricominciare la costruzione del suo karate? Nel corso della propria ricerca egli abbandona l’esercizio al makiwara e arriva a bandirne la pratica, mentre Funakoshi (op. cit. p. 251) afferma che “è importante rafforzare costantemente i pugni e i calci contemporaneamente al perfezionamento delle tecniche praticando kata e kumite”.
Dal punto di vista tecnico, il karate codificato da Egami è molto diverso da quello insegnato da Funakoshi padre e ancor più da quello di Yoshitaka. Vi sono differenze nette nelle posizioni, nell’ampiezza dell’esecuzione, nel modo di portare i pugni e i calci. Il paradosso finale della sua ricerca è che, partendo dalla ricerca dell’efficacia nel combattimento, Egami è arrivato all’efficacia che permette di superare l’idea stessa di combattimento, approdando a quello che definisce Heiho (metodo della pace):
“Il heiho, metodo della pace, fa parte della tradizione giapponese. Si tratta di un metodo per far vivere gli uomini e non per uccidere. Penso che elevando la qualità del karate in Heiho esso diventerà un vero karate-do”.
Il concetto di heiho è già presente, ad esempio, negli anni della maturità dello spadaccino Miyamoto Musashi. Egli ha raggiunto il livello che gli permette di respingere il suo avversario senza toccarlo.
“Quando l’avversario perde così, senza ricevere un colpo, è indotto a una riflessione profonda sulla propria tecnica e sul proprio modo di essere”.
L’idea di Heiho è radicata profondamente nella cultura tradizionale dei guerrieri giapponesi, mentre non faceva parte della cultura di Okinawa. È forse l’apporto più originale di Egami (e dello Shotokai) al karate-do.
Nella parte conclusiva dell’articolo, Muratori insiste sull’apporto originale dei singoli maestri al patrimonio dello Shotokai, mentre al tempo stesso conferma la fedeltà di ognuno alla tradizione, facendo riferimento al patrimonio dei 15 kata originari che Funakoshi portò in Giappone da Okinawa (poi ampliato dai suoi successori fino all’attuale numero di 26). Tuttavia, nel corso della mia ricerca, ho preso visione di un’intervista al M° Tomoji Miyamoto, assistente del M° Egami e segretario dello Shotokai fino alla morte dello stesso Egami, avvenuta nel 1981.
Nell’intervista si parla di un libro di Egami, pubblicato nel 1970 e intitolato Karate Do for the Specialist, apparso in una tiratura limitata di 1000 copie e oggi quasi introvabile. In esso erano descritti e fotografati ben 40 kata (!), tra cui alcuni kata di Bo. Sembra dunque che anche Egami, come Asai, Kanazawa e altri, abbia sentito l’esigenza di contribuire al già nutrito repertorio dei kata di karate, superando il limite dei 15 kata, che era in fondo una conseguenza della massima “hito kata sannen” (un kata ogni tre anni), che era la regola aurea di Okinawa.
Egami rimise così in discussione l’uso del makiwara e l’efficacia dello tsuki del karate.
Sinceramente, non comprendo la determinazione con cui Muratori nega al suo karate la qualifica di “stile”, come se fosse un difetto e non piuttosto un riconoscimento della sua specificità e originalità.
Bella piuttosto l’interpretazione, non banale e da me pienamente condivisa, che l’autore dà della celebre massima del Niju Kun: “Il karate è come l’acqua calda: occorre scaldarla costantemente o si raffredda”.
Secondo lui “il vero messaggio” di Funakoshi è che l’arte del karate va mantenuta viva apportando sempre “nuove idee e nuove energie, pena la stagnazione”. È un’idea che mi piace: se dunque lo Shotokai “non” è una scuola “senza porte e senza finestre”, come le monadi di Leibniz, potrebbe cominciare col riconoscere anche l’apporto di un altro grande allievo di Funakoshi, Masatoshi Nakayama, includendo nel proprio repertorio tutti i 26 kata che pratichiamo noi, oltre a quelli illustrati da Egami nel già citato Karate Do for the Specialist.
Mi piacerebbe molto partecipare a uno stage in cui venissero spiegati e praticati alcuni kata di entrambi gli stili… pardon, di entrambe le scuole!