Una palestra di karate è per molti aspetti simile a una scuola e, come in una scuola, può capitare che il responsabile dell’insegnamento – il Maestro – si assenti…
Quest’articolo vorrebbe riprendere e completare la discussione del rapporto (e del dialogo) tra allievi e docenti, e dell’atmosfera ideale che dovrebbe stabilirsi e mantenersi in un dojo. Una palestra di karate è per molti aspetti simile a una scuola e, come in una scuola, può capitare che il responsabile dell’insegnamento – il Maestro – si assenti, perché chiamato altrove da un’emergenza o per un impegno inderogabile concomitante con la lezione. Questo accade più spesso se il vostro insegnante è molto richiesto e ha un ruolo insostituibile, ad esempio se è l’allenatore della squadra nazionale o membro della Commissione Tecnica della federazione. In tal caso qualcuno è designato per sostituirlo.
Un dojo di karate non è un’aula scolastica e i praticanti di karate sono per lo più degli adulti consapevoli.
Per riprendere l’analogia con la scuola, i miei lontani ricordi liceali non sono particolarmente lusinghieri per quel che riguarda la sorte del malcapitato “supplente”: privo dell’autorità che deriva da una gestione esperta della classe e spesso anche dell’”arma” dei voti, nella migliore delle ipotesi egli (o ella) predicava nel deserto, tra l’indifferenza e la disattenzione degli studenti. Talvolta diveniva persino bersaglio di scherzi crudeli, in una versione all’epoca poco dibattuta del bullismo scolastico. “Senatores boni viri, senatus autem mala bestia”: questa frase, attribuita a Cicerone, riconosceva già l’influenza del “branco” che deresponsabilizza il singolo, rendendo stupidi e crudeli dei ragazzotti che, presi individualmente, sarebbero quasi ragionevoli.
Si dirà che, per fortuna, un dojo di karate non è un’aula scolastica e i praticanti di karate sono per lo più degli adulti consapevoli della “sacralità” del luogo e dell’arte, predisposti ad apprendere e a praticare con passione, indipendentemente dalla figura carismatica del Maestro. Vero, ma fino a un certo punto.
Mezzo secolo di pratica mi fornisce numerosi esempi di comportamenti “virtuosi”, ma anche di atteggiamenti deprecabili.
Tra questi ultimi il primo (un caso limite) è la diserzione individuale o di gruppo alla notizia che il Maestro quella sera mancherà: basterebbe (se si fa l’appello) confrontare il numero dei latitanti nello stesso giorno della settimana, ad esempio il venerdì, per notare la differenza. Scoprire che metà del corso è “non pervenuta”, è abbastanza mortificante per chi ha il compito (sempre impegnativo) di sostituire il titolare, ma tutto sommato alleggerisce il suo impegno.
Più frequente è invece la partecipazione “spensierata” alla lezione, come se fosse solo l’occhio del maestro a farvi spingere sull’acceleratore e a farvi impegnare al massimo dal primo al sessantesimo minuto. In questo caso le richieste di chiarimenti si moltiplicano e il livello di attenzione cala pericolosamente, in proporzione inversa al brusìo di sottofondo, che documenta come alcuni praticanti si ritengano autorizzati a dialogare con i propri sparring partner, dando o chiedendo delucidazioni e suggerimenti.
Per quanto il “supplente” possa avere un atteggiamento conciliante e da “primus inter pares”, occorrerebbe sempre chiedersi che impressione avrebbe di voi un eventuale spettatore: sta osservando una lezione di karate tradizionale o un corso di fitness?
Ovviamente, la situazione ottimale si ha invece quando tutti si comportano come se il Maestro si fosse assentato per cinque minuti per rispondere al telefono o per salutare un ospite illustre: quando rientra ritroverà esattamente l’”atmosfera” che ha creato e l’allenamento proseguirà senza alcun intoppo. Nella palestra che ho il piacere di frequentare, questa è la normalità e c’è anche la sana consuetudine di ringraziare il “senpai” che ha sostituito il Maestro per quella lezione.
Dato che KarateDo Magazine si rivolge anche agli istruttori, non è fuori luogo esaminare la questione anche dal “lato opposto della cattedra”: come dovrebbe comportarsi il nostro “supplente” per far rimpiangere il meno possibile il maestro che è chiamato a sostituire? L’ipotesi per lui più favorevole (e la più frequente) è che il titolare gli abbia dato (o comunicato oralmente) un programma dettagliato della lezione. In questo caso la sua strada è in discesa e il sostituto dovrà solo avere l’accortezza di dosare l’intensità dello sforzo, come farebbe il Maestro, e di non stravolgere i compagni per eccesso di zelo. Dovrà correggere gli errori che vede, senza imbarazzo, ma anche senza eccessivo accanimento, evitando di essere “più realista del re”.
Altre scelte, come quellla se allenarsi anche lui col gruppo o limitarsi a supervisionare i compagni, sono lasciate alla sua sensibilità. Se nell’allenamento in coppia qualcuno è senza compagno, farà bene a partecipare, a meno che l’inesperienza di qualche praticante renda consigliabile la sua costante sorveglianza. Dovrà essere disponibile alle richieste di chiarimenti (che non mancheranno), ma anche fermo nel portare avanti il programma che gli è stato sottoposto.
La situazione ottimale si ha quando tutti si comportano come se il Maestro si fosse assentato per cinque minuti.
In passato mi è capitato talvolta di sostituire il mio Maestro senza preavviso e, quindi, senza avere un programma preciso da svolgere. In generale ho adottato una delle soluzioni seguenti:
- Ripetere l’allenamento precedente svolto in presenza del Maestro. È la soluzione più semplice e quella che consiglierei agli “aspiranti istruttori” con limitate esperienze di insegnamento. Poco gratificante forse, permette di consolidare le nozioni appena apprese e forse di chiarire qualche dubbio.
- Strutturare una lezione che tenga conto del livello medio del corso, idealmente dando uguale spazio alle tre “k” del nostro karate tradizionale: kihon, kata, kumite. Ad esempio, cominciare con l’esecuzione lenta dei fondamentali per cintura marrone (o per primo, secondo… dan). Per quanto riguarda il kumite, la parte sicuramente più rischiosa della pratica, eviterei senz’altro il combattimento libero, spaziando invece tra le varie forme di combattimento preordinato e le tecniche di kumite. Anche l’applicazione in coppia dei fondamentali può essere una valida soluzione. Si può concludere con un ripasso degli Heian.
- Una terza alternativa potrebbe essere l’approfondimento monotematico di un kata recentemente studiato, seguito (se il livello degli allievi lo consente) dal suo bunkai, anche parziale, e nella sua forma più semplice (seguendo l’ordine del kata o tornando ogni volta in hachijidachi), tenendo però presente che la pratica del bunkai potrebbe richiedere più tempo del previsto.
Come ultimo consiglio, se fossi incaricato di sostituire il Maestro, resisterei alla tentazione di dare un “tocco troppo personale” all’allenamento, inserendo ad esempio una mia variante del bunkai o qualche combinazione fantasiosa poco adatta a essere memorizzata in poco tempo. Eviterei soprattutto di arrabbiarmi se la “classe” non capisce la mia spiegazione: forse sono io a essere poco chiaro. Dopo tutto sono solo un supplente, non il Maestro!