L’episodio di “Jones” e del suo maestro di karate dovrebbe indurci tutti a riflettere, allievi e insegnanti.
Nei lontani anni Settanta c’era in Europa un campione di karate che per comodità chiameremo Jones (ma potrebbe anche chiamarsi Schmidt, o Dupont, o Tagliaferri). In possesso di un corpo robusto, di un cervello acuto, di coraggio e di talento, era tra i migliori karateka della sua generazione. Si allenava quotidianamente con un personaggio famoso del karate giapponese. Colpiva con la forza di un autotreno che schianta un carrello della spesa abbandonato in tangenziale, aveva un debole per gli attacchi inaspettati ed era freddo e coraggioso contro qualunque avversario. Alcuni di quegli avversari erano karateka giapponesi giovani e focosi, che dopo aver combattuto con lui risalivano sull’aereo ammaccati e zoppicanti.
Colpiva con la forza di un autotreno che schianta un carrello della spesa abbandonato in tangenziale.
“Jones” stava proprio raggiungendo il picco della sua carriera agonistica quando in Giappone fu annunciato un torneo internazionale di karate. La competizione sarebbe stata molto accesa e siccome cominciavano a emergere in tutto il mondo campioni di karate non giapponesi, il Giappone doveva provare di essere ancora la patria dei migliori. Tuttavia, “Jones” non vi partecipò.
Pochi mesi prima della gara, il suo sensei gli disse di non farlo. A distanza di cinquant’anni, può essere ancora utile per noi chiederci perché e pensare alle implicazioni che ha questo episodio per coloro fra di noi che si sottopongono all’autorità di un maestro di arti marziali.
L’insegnante di “Jones” era uno dei più conosciuti al mondo. Ma era anche giapponese e, da alcuni commenti nella sua madre lingua (e in quell’inglese rudimentale che conosceva), molti erano convinti che avesse dei pregiudizi razziali in sfavore degli occidentali. Ma in compenso era un insegnante che si dedicava ai suoi allievi europei e faceva grandi sacrifici per addestrarli, cosa che rende ancora più interessante il fatto che avesse proibito a “Jones” di iscriversi alla gara.
L’ambiente del karate era diviso sulla questione. Alcuni dicevano che fosse colpa del razzismo: il maestro, cittadino giapponese, aveva paura che “Jones” facesse sfigurare i suoi connazionali battendoli. Per salvare l’onore del suo Paese, aveva escluso il suo allievo dalla gara.
Altri presentavano un punto di vista diverso: il maestro stava cercando di impartirgli una lezione essenziale. Negli ultimi mesi “Jones” si era concentrato su quella gara. Ne era totalmente assorbito, proprio come uno sciatore o un corridore olimpico che si allena ossessivamente, temprando corpo e mente per raggiungere il picco della condizione. Era possibile che il suo maestro stesse cercando di insegnargli che essere un campione non è lo scopo del budo. Forse era il suo modo di dire: “OK, hai dimostrato che sei un campione nel mondo dei tornei. Ora è il momento di cominciare a maturare come budoka, come insegnante.” Un’ipotesi affascinante, non fosse che era stato lo stesso maestro, più o meno nell’ultimo anno, a focalizzare la sua attenzione sulla strategia e sulla tattica del kumite di gara.
Altri ancora suggerivano che il maestro di “Jones” lo stesse mettendo alla prova, come quando Dio chiese ad Abramo di sacrificare suo figlio: “Quanto ti fidi di me? Ti fidi abbastanza di me come tuo sensei per allontanarti dalla cosa che hai desiderato di più in questi ultimi anni? Se è così, sei pronto per ricevere i miei insegnamenti più importanti.”
Era un insegnante che si dedicava ai suoi allievi europei e faceva grandi sacrifici per addestrarli.
Personalmente, non do grande importanza alle gare nelle arti marziali. Io non ho mai gareggiato, ma ho avuto alcuni allievi (soprattutto donne) che l’hanno fatto a un ottimo livello. Mi è difficile mettermi nei panni di “Jones”, ma ho pensato nel corso degli anni alle conseguenze che questo episodio può aver avuto nel rapporto allievo-maestro.
Non mi sono mai allenato con un maestro di cui non pensassi che avesse a cuore il mio bene. Nessuno di loro era perfetto. Alcuni erano un po’ umorali o non facili nelle relazioni umane. Alcuni erano insegnanti migliori, altri persone migliori, ma non ho mai messo in dubbio le loro motivazioni nell’insegnarmi, ciascuno nel proprio stile. Suppongo che un fattore essenziale sia stato il fatto che ho conosciuto tutti i miei maestri, non solo come sensei, ma anche come persone. Mi hanno consigliato nei momenti di incertezza, mi sono stati vicini nei momenti di dolore.
Sospetto che nel caso di “Jones” egli conoscesse il sensei come insegnante, ma anche dopo anni di intenso allenamento non lo conoscesse come essere umano. Questo gli rendeva particolarmente difficile cercare di determinare i veri motivi delle sue azioni.
L’episodio di “Jones” e del suo maestro dovrebbe indurci tutti a riflettere, allievi e insegnanti. Cosa avreste fatto al posto di “Jones”? Cosa avreste fatto al posto del suo maestro? Avreste continuato ad allenarvi con lui? Ecco alcune domande su cui riflettere facendo stretching (o “tai-so”, se siete tradizionalisti tutti di un pezzo) prima della prossima lezione.