Protagonisti di quell’epoca in cui abbiamo potuto conoscere il “vero” karatedo, che nessun’altro, in futuro, avrebbe potuto rivivere.
Di Ilio Semino
Provo una struggente e sincera nostalgia del karate dei miei esordi. Quello che si è praticato sino al 1980, per intenderci.
Un karate “povero”, essenziale, faticoso e doloroso; non c’era distinzione di sesso e di età, tutti si praticava “karate”, che era solo quello. Ma era fantastico!
Ricordo quando l’insegnate (allora i Maestri veri erano pochi) proponeva qualche cosa di nuovo, l’emozione che provavamo a imparare una cosa che gli altri, di grado inferiore, non potevano conoscere, questo faceva la differenza tra i Kyu e tra i Dan: il grado più alto identificava veramente il praticante più competente. E questo non era negoziabile, senza se e senza ma.
Un karate “povero”, essenziale, faticoso e doloroso.
Agli stage, più rari, attesi e frequentati di oggi, si imparava sempre qualcosa di nuovo, di “mai visto” ovvero osservato nella dimostrazione di qualche “mostro sacro” dell’epoca, nostrano o straniero che fosse: quando il Maestro di turno affermava che quel giorno avrebbe insegnato quel determinato kata, che andava oltre agli shitei, al primo tekki e a un paio di sentei, a noi sembrava di essere in procinto di imparare ad andare sulla Luna… e pensare che ne rimanevano tanti e tanti altri: lo stimolo a non mollare mai, a imparare di più…
Il nuovo kata veniva assorbito gesto per gesto durante la lezione – nella quale bisognava capire senza chiedere e fare senza sbagliare –, era riportato immediatamente su di un quaderno appena rientrati negli spogliatoi, prima della doccia, per non perdere nulla, poi ripetuto centinaia di volte nella memoria, provato in qualsiasi luogo ci si trovasse, per non correre il rischio di dimenticare un passaggio, una tecnica, la posizione di un esercizio che ci avrebbe consentito di essere invidiati e ammirati in quanto fortunati destinatari di qualche cosa di straordinario.
Quando si combatteva, in allenamento o in gara, non cambiava nulla: tecnica, rispetto, decisione, paura, spirito, erano gli stessi: chi prendeva la medaglia aveva vinto, gli altri erano cresciuti, sempre in amicizia, stima e complimenti reciproci, con qualche livido in più portato con orgoglio.
Oggi è tutto scontato. Il fascino “misterioso” del karate è stato sostituito da impietosi video che ne mortificano l’essenza, da competizioni che ne stravolgono i principi, da insegnanti che ne irridono la storia, da praticanti che non hanno idea di che cosa stiano facendo.
Poi, scambiando qualche parola con i pochi fratelli di pratica di allora, ancora oggi aggrappati alla vera filosofia del karate di quel tempo, la nostalgia si trasforma in consolazione: la consolazione di essere stati protagonisti di quell’epoca in cui abbiamo potuto conoscere il “vero” karatedo, che nessun’altro, in futuro, avrebbe potuto rivivere.