Incontrato a uno stage di parakarate, scopriamo un atleta davvero di grande umanità e sincerità.
Di Susanna Rubatto
Non dev’essere stato un percorso facile trasformarsi, da ragazzino obeso, nell’atleta arrivato sul podio più ambito dagli sportivi. Un ragazzo che a soli diciannove anni, nel 2006 a Tampere, è diventato il più giovane campione del mondo di karate WKF, oro mondiale nel kumite che ha replicato a Parigi nel 2012.
Ha iniziato la pratica del karate a 12 anni al Centro Arti Marziali di Avola (cosa per cui è soprannominato il “Gorilla d’Avola”) in una famiglia di karateka: dal padre maestro, alle sorelle Lorena e Cristina, anche loro valenti karateka internazionali.
Di Busà ormai si può sapere tutto attraverso le sue interviste e i suoi profili, ma noi abbiamo avuto l’occasione d’incontrarlo, a Mestre (VE) il 4 maggio 2022, a un appuntamento per lui inedito: uno stage organizzato dal M° Roberto Ronchini fondatore e D. T. del “Gruppo Karate Polisportiva Terraglio” con 42 atleti del parakarate e 170 agonisti. A consegnare una targa ricordo al campione il M° Vladi Vardiero, vice presidente settore karate veneto Fijlkam.
Noi possiamo testimoniare di quanto vero cuore Luigi abbia messo in questo incontro con le persone disabili, in una relazione empatica, spontanea e sincera.
Purtroppo, il tempo a disposizione per l’intervista non è stato sufficiente a rivolgergli tutte le domande che avremmo voluto, ma sarà la scusa per incontrarlo nuovamente in un’altra bella occasione come questa.
Come hai vissuto il “dopo” Olimpiadi di Tokyo 2021?
Ormai sono trascorsi nove mesi, ma ho iniziato a realizzare veramente il tutto a gennaio! Il periodo tra agosto e dicembre è stato un vulcano, un frullatore di emozioni: non avevo tempo per nulla e correvo continuamente di qua e di là. Infatti, a novembre 2021 ci sono stati i Mondiali a Dubai (una cosa da pazzi organizzarli a distanza di soli due mesi e mezzo dalle Olimpiadi) e ho tentato la preparazione, ma dopo quindici giorni, a parte anche un piccolo infortunio (niente di che), ho capito che non ce l’avrei fatta, perché stavano avvenendo troppe cose dove – oltre al fatto che guadagnassi, dato che mi chiavano come ospite anche in trasmissioni televisive e c’è da dire che nel nostro sport non ci arricchiamo –, c’erano troppe emozioni che non mi permettevano di concentrarmi nell’allenamento. D’altronde, volevo anche godermi questi momenti, in 34 anni non ho mai “staccato la spina” e ho pensato che se non l’avessi fatto allora, significa che sono veramente un ammalato di questo sport (come in effetti sono), così ho scelto di vivermi il momento.
Se dovessi raccontare le Olimpiadi, le racconterei come una gara bruttissima, a livello di tensione e di nervosismo ti devasta.
Hai incontrato Rafael Ağhayev, il tuo avversario nella finale, dopo le Olimpiadi?
No, non ci siamo sentiti, siamo rimasti un po’ freddi. Abbiamo un rapporto di stima e di amicizia di lunga data, ma alle Olimpiadi poteva vincere solo uno e i nervi erano veramente molto tesi. Infatti, se dovessi raccontare le Olimpiadi, le racconterei come una gara bruttissima, a livello di tensione e di nervosismo ti devasta, lì davvero vince chi ha più “testa”, più del fatto di essere bravi.
La parte più difficile sono state le qualificazioni: due anni e mezzo di gare, con i primi quattro al mondo e, inoltre, la pandemia da Covid… un periodo arduo.
Al tuo rientro, come tanti campioni olimpici, hai ricevuto molti riconoscimenti?
Mi hanno fatto commendatore della Repubblica, mi hanno conferito la laurea honoris causa in “Teoria e Metodologia dell’Allenamento” [rilasciata per meriti sportivi dalla Facoltà di Scienze e Tecniche dello Sport dell’Università Isfoa a tanti ori olimpici al loro ritorno da Tokyo NdA].
Tra l’altro a me manca un’ultima materia, fisiologia, per prendere davvero la laurea in Scienze motorie alla Luiss di Torino e per me, non frequentando i corsi, è piuttosto impegnativo.
Come concili impegni privati e impegni sportivi?
In realtà, avrei anche degli spazi di tempo, ma quando sono previste gare importanti come mondiali, europei o in occasione delle Olimpiadi, io “stacco” e mi concentro solo su una cosa, almeno tre/quattro mesi prima, e poi riprendo.
Noi sportivi abbiamo tanto tempo a disposizione, perché il nostro lavoro consiste nell’allenarsi mattina e pomeriggio, però poi, per esempio dopo le gare, ci sono giornate che sembrano interminabili e dopo due giorni di riposo… ci si stanca di non fare nulla!
Quindi, hai tempo per coltivare degli hobbies?
Io ho molti hobbies e adesso ho anche iniziato a studiare pianoforte. È difficile, tra l’altro a livello di mani sono molto scoordinato, però, quando l’ho provato ho sentito un senso di rilassamento pazzesco e mi sono detto che dovevo farlo.
A me piace scoprire sempre cose nuove e reinventarmi. Mi piace anche ballare, latino-americano e mi iscriverò a una scuola.
Vuoi dire che potremmo vederti a “Ballando sotto le stelle”?!
Non voglio dire… chissà, potrebbe essere…
Secondo te, questa popolarità giova comunque a creare occasioni per fare conoscere il karate?
Sì, è una grande cosa. Tra poco compio 35 anni e mi rendo conto che fino a poco tempo fa cercavo la notorietà, l’essere famoso. Infatti, mi proposero anche un sacco di reality in televisione e forse all’epoca ci sarei andato subito, visto anche il ritorno economico, ma adesso sono soddisfatto di me stesso e non sono alla ricerca di questo. Sono alla ricerca di fare conoscere il karate e la mia storia, che secondo me è bella da raccontare per la mia obesità da piccolo e il rapporto che ho avuto con mio padre e maestro.
Oltre a questo, siccome secondo me il karate lo praticano in tanti, ma lo conoscono in pochi, il mio “battagliare” andando anche in televisione, è l’impegno che mi sono preso per divulgare il karate.
Sono alla ricerca di fare conoscere il karate e la mia storia, che secondo me è bella da raccontare.
Che cosa intendi dicendo “il karate lo praticano in tanti, ma lo conoscono in pochi”?
Significa che, per esempio, grazie ai film o alle serie TV il karate incuriosisce e magari aumentano le iscrizioni nelle palestre, però poi, se si comparano Busà e Marcell Jacobs è chiaro che emerge la sua disciplina, l’atletica, che è la “regina” olimpica.
Noi due siamo molto amici e gli ho detto che voglio essere come lui, sullo stesso piano a livello divulgativo, perché abbiamo vinto la stessa medaglia e affrontato uguali sacrifici. Marcell sta creando un campo d’atletica per quei ragazzi che non possono permettersi di allenarsi e anch’io in futuro ho intenzione di fare molte cose in questo senso.
Ho deciso di combattere, divertendomi ancora per quest’anno, ma poi non voglio fermarmi, non mi piace pensare di fare l’allenatore. Sono ambizioso e voglio diventare sempre più “grande”, non per me stesso, ma per tutto il mondo del karate. Ancora di più oggi che il karate è uscito dal percorso olimpico ed è una bella batosta per tutti i ragazzini che praticano questo sport. Mi sono ripromesso di fare di tutto perché nel 2028, a Los Angeles, possa essere reinserito, perché i ragazzi devono continuare a sognare.
A quale livello vorresti agire per il reinserimento del karate alle Olimpiadi?
A livello politico, dirigenziale. Infatti, voglio operare in tal senso iniziando a farlo conoscere anche attraverso gli eventi ai quali partecipo, inoltre, ora con i social è più facile comunicare. In Instagram mi seguono 100.000 persone e vedendo ciò che faccio possono appassionarsi, anche i ragazzi con disabilità come quelli che incontro oggi a questo appuntamento.
Il mio obiettivo è di lanciare messaggi e me ne arrivano anche tanti, da mamme e papà, per ringraziarmi di quello che sto facendo, per essere diventato un esempio per i figli che magari si sono iscritti in palestra. Questo mi gratifica oltre ogni medaglia olimpica!
Fai molti incontri con i ragazzi?
Ancora non tanto come vorrei, perché sono parecchio occupato. Inoltre, non è tanto il tipo di lezione a impegnarmi, dato che sono piuttosto abituato a spiegare o a dimostrare le tecniche, quanto il fatto che i ragazzi a livello energetico richiedono il massimo. Loro sono presenti per me e io do tutto, specialmente quando vedo i loro occhi sognanti (che mi ricordano me stesso da ragazzino), io mi “apro”, mi concedo totalmente e ci metto tanta energia, perché è questo che serve trasmettere. Perciò faccio pochi incontri, dovendo allenarmi questo tipo di impegno mi sfianca abbastanza. Quando però finirò l’attività agonistica ne farò sicuramente di più.
Penso ci sia bisogno di questi incontri, ma non solo con me. Dico sempre di chiamare anche altri campioni, pure dall’estero, perché i ragazzi ne hanno bisogno.
Tu stesso potresti costruire una “rete” di questo tipo!
Esatto, infatti è quello che avrei intenzione di fare. Ora sono giovane, in forma, ma tra cinque, dieci anni sarò io a organizzare questo tipo di eventi assieme ad altri.
Quali sono i tuoi impegni in questo periodo?
Ho ripreso gli allenamenti e tra un mese ho gli Europei in Turchia e dopo ho i Giochi del Mediterraneo [25 giugno – 5 luglio 2022 in Algeria NdA]. In merito a questi ultimi, alle Olimpiadi con il mio coach Claudio Guazzaroni, che ora non c’è più, eravamo rimasti che devo andare a vincerli, perché è il solo oro che mi manca.
Io ho fatto tutti i record, ma sono forse l’unico a sperare che qualcuno li batta. Ne ho raggiunti di importanti e di difficili: 13 titoli italiani consecutivi, dal 2006 al 2018; il più giovane campione del mondo (19 anni); l’oro olimpico, che di sicuro verrà eguagliato… io sono stato solo il primo. Insomma, sono stato l’unico a vincere i titoli alle quattro manifestazioni più importanti: Italiani, Europei, Mondiali e Olimpiadi, ma, ripeto, sarei felice se altri mi eguagliassero.
È impensabile che oggi come oggi nello sport non ci sia la presenza di un mental coach.
Prima hai accennato al fatto che vince chi ha più “testa”, quindi, per un atleta l’affiancamento di un mental coach è importante?
Io lavoro da sette anni con Nicoletta Romanazzi e l’ho fatta conoscere anche a Viviana Bottaro e ad altri atleti, ma in Italia farsi aiutare da una figura così è ancora un grande tabù. È impensabile che oggi come oggi nello sport non ci sia la presenza di un mental coach, soprattutto in uno sport individuale dove sei tu contro tutti, avversari, arbitri e… te stesso, che è l’aspetto più difficile.
Io ero molto scettico in merito, verso i 28/29 anni mi ero detto “basta, non ce la faccio più”, ero parecchio stanco e volevo smettere ed è stato allora che mi sono rivolto a Nicoletta e ho svoltato.
Ero il numero uno del ranking mondiale e, naturalmente, avevo tutti contro la decisione di smettere, ma io volevo anche “divertirmi” nella vita!
Di regola sono uno molto serio in ciò che faccio e solo attualmente sto iniziando a “vivere”, a uscire la sera, a incontrare persone, amici, ed è bellissimo, perché mi sono accorto che per il karate ho rinunciato veramente a tante cose.
Oggi, qui a Mestre, che tipo di stage sarà?
È la prima volta che lavoro con ragazzi disabili e per fortuna ci saranno delle persone che mi indirizzeranno, ma io me li voglio soprattutto abbracciare e stare con loro, per fare questa esperienza speciale.
Poi, c’è la seconda parte con gli agonisti del territorio, dove, dopo l’allenamento desidero avere quindici minuti con loro per parlare. Rivolgo loro principalmente una domanda, che faccio sempre a random: “Qual è il tuo sogno?”, ma su una ventina di ragazzi e ragazze, generalmente solo uno risponde.
Invece, per me è importante dire loro che avere dei sogni è essenziale e da ogni stage me ne vado dicendo: “La prossima volta che ci incontreremo dovrete rispondere immediatamente a questa domanda!”.