Per cinquant’anni ho fatto karate, quarantacinque attivi e gli ultimi passivi. Non si deve fare karate “per finta”, va fatto sul serio: col cuore, con la mente e, in ultimo, con il fisico.
di Susanna Rubatto
Paolo Lazzarini, è stato Presidente e Direttore Tecnico della società Sho-Gun di Reggio Emilia, da lui fondata nel 1985.
Allievo del M° Bruno Baleotti e successivamente del M° Hiroshi Shirai.
Nel 1972 inizia la pratica del karate e dal 1984 al 2002 è componente della Nazionale, prima dell’ISI e poi della FIKTA, partecipando a numerose gare nazionali e internazionali, sia nel kata sia nel kumite.
Nel 2018 gli è stato conferito il 7° dan
Ringraziamo il M° Lazzarini per il tempo che ci ha concesso, perché anche parlare per l’intervista non gli è facile. Il suo curriculum in qualità di atleta prima, di maestro e tecnico dopo, è indubbiamente di tutto rispetto, ma questo incontro abbiamo voluto incentrarlo sugli accadimenti degli ultimi anni, che lo hanno certamente segnato nel fisico, ma, come leggerete, non nello spirito e nemmeno nell’ironia. Una storia e una persona che desideriamo far conoscere, quale meritorio esempio di atleta dell’anima.
Karateka di caratura, ha percorso la Via, il Do, che la vita gli ha richiesto.
Oss Maestro!
È stata dura, ma ho usato il karate come fosse un’ancora.
Maestro, posso chiederle di raccontarci cosa Le è successo?
L’estate di cinque anni fa ero a fare un giro al mare in scooter, perché avrei dovuto fare un’immersione, dato che praticavo anche subacquea, oltre al crossfit, al ballo e altro, quindi ero anche uno molto in forma. Poi, essendoci brutto tempo, rientrai a casa a Ravenna (dove mi trovavo in quel momento, ma io abito a Reggio Emilia) e lì, senza nessun preavviso o segnale, sono improvvisamente caduto a causa di un ictus che mi colpì. Ora non sono più così in forma…
Ho scoperto così l’esistenza di questa condizione ed è difficile da sopportare. Però, per “fortuna”, riesco a essere abbastanza autonomo (anche se non come prima). La stessa cosa è capitata ad altri miei colleghi, i quali però nemmeno riescono a parlare, perciò capisco bene che sia un grosso problema che hanno in molti.
Io fortunatamente ho il karate, è vero che anche gli altri lo praticavano, ma a me ha fatto un effetto positivo, dandomi la forza di reagire. Obiettivamente, se non avessi avuto il karate, non so come sarebbe andata a finire, perché ho passato dei momenti, soprattutto il primo anno, in cui non sapevo dove sbattere la testa. È stata dura, ma ho usato il karate come fosse un’ancora, nonostante ogni tanto io abbia ancora degli scoramenti. Poi però mi domando perché dovrei lamentarmi, quando ci sono persone che stanno molto peggio di me. Io guido la macchina, sono autonomo, posso incontrare i miei amici, andare alle lezioni del Maestro Shirai e seguire gli stage, anche se è chiaro che non posso più praticare. Io indosso il karategi, ma posso solo guardare, non più fare, nonostante abbia sempre fatto un karate attivo, anche dopo l’agonismo.
È così che mi motivo, pensando a quelli che invece non ci sono più o che non ce la fanno.
Quando vedo gli atleti paralimpici mi dico che loro sì sono forti, mica io! Allora mi dico che sono fortunato, pensando alla fatica che fanno per arrivare dove sono, dimostrando una enorme forza interiore.
Si dice che il dolore o la malattia siano dei “maestri”, lo condivide?
Sì, perché ho imparato tante cose che prima non avevo capito. Anche riguardo al karate mi sono accorto che molti miei allievi, o persone che mi conoscono, mi chiamano pure da altre regioni, perché a loro piace fare karate con me. Prima, facevo karate e basta, adesso, a loro piace molto la persona che sono diventato, perché sono più gentile, più paziente e curo molto gli altri: li guardo, li osservo e riesco a vedere cose che prima non vedevo e insegnare così mi ha aiutato. Anche gli altri maestri mi dicono che sono molto migliorato, sono maggiormente consapevole di tante cose, mentre prima ero solo un atleta, anche se non giovanissimo. Perciò, penso che quanto mi è capitato mi abbia insegnato veramente tanto, anche dal punto di vista del rapporto umano. Mi rendo ben conto che a loro non serve un maestro handicappato, però è ciò che ho dentro che per loro è importante; chi ha capito è rimasto e chi non ha capito se n’è andato, ma sono loro ad avere perso.
Continua a insegnare?
Io avevo una palestra abbastanza grande e conosciuta, ma ho dovuto subito rinunciare a insegnare ai bambini e questo mi fa piangere il cuore, non posso oggettivamente seguirli, perché bisogna avere una cura particolare, stare loro vicino, e questo mi costa molta fatica.
Dopo l’incidente ho perso tutti gli agonisti, a parte un paio di ragazzini, con varie scuse, ma me ne sono fatta una ragione. Mi sono rimasti gli allievi che sono con me da trenta, quarant’anni, un gruppo che mi aiuta a reagire, perché io ho il dovere di essere sempre presente. Dopo il ricovero in ospedale sono andato subito in palestra e ancora non riuscivo a parlare bene. Ho avuto pazienza e così ho mantenuto due corsi, perché io vivo col karate.
Ho dovuto rinunciare anche alla mia palestra, non riuscendo più a seguirla anche per quanto riguarda la segreteria… Ma non devo pensarci, altrimenti vado in crisi.
Per cinquant’anni ho fatto karate, quarantacinque attivi e gli ultimi cinque passivi, però vado sempre lo stesso in palestra.
Quindi, questi cinque anni sono stati attivi, anche se più “interiormente”?
Sì, perché penso di fare più cose io di chi sta bene. Dove posso seguo sempre il Maestro Shirai, in Lombardia, in Veneto o in Toscana. Il Maestro mi dice di mettermi di fianco a lui e quando riesco mi alzo in piedi e faccio qualcosa, quando mi stanco mi devo sedere, ma è lui che mi chiama e mi tiene vicino. Questa è l’unica mia consolazione, osservo e noto cose di cui prima non mi accorgevo, tante piccole sfumature che allora non percepivo.
Ti racconto una bella cosa che mi è successa questa settimana: al saluto mi alzo e lo faccio anch’io insieme a tutti e al Maestro, poi lo faccio anche rivolto alla foto del Maestro Funakoshi (cosa che faccio sempre anche quando insegno, dopo che gli allievi se ne sono andati) e noto che lo fa anche il Maestro, in quel momento realizzo che, senza accorgermene, inconsapevolmente, ho acquisito quel gesto da lui. Standogli vicino mi trovo molto spesso in sintonia con ciò che fa.
Chi ha capito è rimasto e chi non ha capito se n’è andato, ma sono loro ad avere perso.
Com’è il suo rapporto col M° Shirai?
Devo dire che il Maestro, in tutti questi anni, non si è mai arrabbiato con me. Lui è sempre stato caratterialmente duro, tenace, forte, e ho capito che è meglio non farlo arrabbiare, per cui ho sempre cercato di comprendere il prima possibile ciò che voleva da me. L’ho seguito dappertutto, per almeno trent’anni.
Una volta si arrabbiò con tutti perché stavano facendo male karate, ma dette una sberla a me! Poi mi chiese scusa e io restai zitto, avevo capito che non ce l’aveva con me, ma ero quello che gli era più vicino.
Qui si capisce che un conto è fare quello che dice il Maestro, un altro è fare come vuole il Maestro, sono due cose diverse.
Nel mio rapporto col Maestro Shirai credo di essere abbastanza obiettivo, infatti, secondo me a volte ha fatto anche delle scelte sbagliate, perdendo degli allievi, ma questo non intacca la nostra relazione.
In passato mi avevano offerto qualcosa d’importante, per esempio dall’ACLI, dove avrei potuto essere un responsabile dello Shotokan italiano, ma questo avrebbe comportato un distacco dal Maestro, così, alla fine ho sempre scelto lui, nel bene e nel male, il mio karate è il suo.
Io vedo in lui qualcuno che mi ha seguito fino alla fine e per questo ho fatto anche delle rinunce importanti: avrei potuto guadagnare di più, avere maggiore visibilità o essere più importante… ma né allora, né ora, mi è mai interessato tutto ciò.
È da quarantacinque anni che sono col Maestro e ho imparato a conoscerlo bene, posso dire che ora il nostro rapporto è veramente una cosa particolare.
Che cosa pensa del karate del Maestro?
Il karate del Maestro Shirai è per livelli alti, spesso alcuni di quelli che provano a frequentare i suoi stage ne escono delusi, perché dicono di fare fatica a seguirlo. Secondo me dovrebbe fare lezioni solo ai tecnici, ai maestri, perché è naturale che cinture più basse non riescano a seguire pienamente la lezione.
Comunque, lui non deve cambiare alcunché.
Poi, è normale che in una federazione ci siano persone più o meno soddisfatte, come dappertutto c’è chi si arrabbia, chi se ne va… a me dispiace per avere perso molti compagni, ma delle beghe m’interessa poco.
Ciò che trovo brutto è invece il clima: una volta, gli stage erano anche un’occasione per incontrarsi tra amici, per praticare e poi uscire a mangiare insieme; adesso si è tutto “impoverito”, ci si trova, si fa lo stage un’ora e si riparte.
Alle lezioni di Mestre, o di Lucca, dopo l’allenamento, si mangia insieme e il Maestro aspetta questa occasione. Stare così con un maestro è un momento bello.
Una volta ero con lui e col mio Maestro Loris Guidetti a pranzo, e il Maestro Shirai, per spiegare una cosa, fece una scritta in giapponese su un tovagliolo di carta che poi lasciò lì, io lo presi e lo conservo ancora. Per me è un bel ricordo.
Forse è l’attenzione con la quale l’ho sempre seguito e ascoltato che mi ha permesso di arrivare a cinquantotto anni (fino all’ictus) in forma, facendo come dice lui.
Quelli della mia generazione hanno veramente vissuto il rapporto col Maestro, ora per gli allievi giovani è molto diverso, mentre per noi è stata una fortuna. Come col Maestro Kase, che è stata una grossa perdita.
Ci sono stati periodi della mia vita in cui non avevo legami e il Maestro mi chiamava a seguirlo in giro per tutta Italia e venivo anche stipendiato per questo. Però ho avuto “paura” di questa cosa, perché più dai al Maestro, più lui pretende, e io avevo il timore di deluderlo nel caso non mi fosse più stato possibile andare dove voleva. Allora ho preso le distanze: sono rimasto allievo, ma libero di scegliere quando potevo seguirlo o meno.
La scorsa settimana a Ferrara l’ho avvicinato e gli ho chiesto se gli creava dei problemi il fatto che io andassi ai suoi stage. Lui mi guarda e dice: “Paolo stai scherzando? Tu sei dove sono io!”. Credo che si debba sempre rimanere umili ed è la cosa che, nonostante il nostro legame, mi ha fatto fare questa domanda. Lui sa perfettamente chi sono e cosa mi è successo, ma ogni volta che lo incontro mi chiede se sono migliorato, perché ha sempre la speranza che qualcosa possa cambiare.
Oggi è anche responsabile regionale degli arbitri.
Il karate non è mai stato il mio lavoro, ho sempre fatto l’operaio, facevo il tornitore, ma sei sere a settimana ero in palestra e ho fatto gare importanti. Però non ho fatto solo quello, ho avuto due mogli e due figli, un lavoro impegnativo, per cui “non mi ha regalato niente nessuno”. Anche ora che ho la pensione d’invalidità faccio tutto lo stesso, anche se non completamente col corpo.
Quest’anno sono diventato responsabile degli arbitri in Emilia Romagna, dato che il M° Dario Ukmar lo è diventato a livello nazionale.
La mia grinta e il mio carattere, non sono stati intaccati, quando insegno lo faccio come una volta, con lo stesso dinamismo e la stessa forza. Agli arbitri dico: se siete stanchi andate a casa! Si lamentano di essere “vecchi”, ma se potessi io sarei il primo davanti a loro. Non si deve mollare e soprattutto non si deve fare karate “per finta”. Il karate va fatto sul serio: col cuore, con la mente e, in ultimo, con il fisico. Agli arbitri ogni tanto “tiro il collo”, perché non ci sono scuse per non fare.
A suo tempo io non mi sono mai fermato, ho sempre praticato, anche con un braccio ingessato, i denti rotti o tutte le ossa rotte, non mancavo mai agli allenamenti e davo l’esempio. Tuttora so che sono d’esempio, ancora più di prima, perché non parlo soltanto, ma sono presente.
La cosa sempre più dura e molto difficile per me è l’ora precedente la lezione, quando mi devo vestire e raggiungere la palestra. Poi però supero tutto e per questo esempio gli altri dicono che non mi vogliono rimpiazzare (mettendomi in imbarazzo!). Certo il mio desiderio sarebbe di dare anche l’esempio tecnico, ma se cammino si vede che non sono “normale”, però ho tanta esperienza e una testa che funziona!
L’unico vantaggio è che sembro più giovane di quello che sono.
Il Maestro mi dice di mettermi di fianco a lui e, quando riesco, mi alzo in piedi.
Ha un desiderio?
Vorrei aggiungere, perché ci tengo molto, che sto seguendo abbastanza da vicino dei maestri che hanno avuto il mio stesso problema, solo che, differentemente da me, non riescono a camminare e uno di loro nemmeno parla.
Allora, io mi offro per parlare di questo problema a chiunque volesse saperne di più e a dare testimonianza di questo evento che ti costringe a “resettare” tutta la tua vita. Io non racconto “balle”, dato che incarno quanto mi è successo, e perciò risulto più credibile quando cerco di stimolare le persone a reagire, anche se è difficile.
Una persona sana non sa cosa significhi camminare passo per passo, stando attentissimo, perché è facile inciampare e cadere. Mi è già successo due volte, fratturandomi diverse costole e la mano, dato che se cado dalla parte offesa, la destra, io non ho difesa.
È una sfida continua, questo voglio insegnare. Come lo è il karate che è pieno di sfide.
Ci vorrebbe poco per lasciarsi andare, ma su questo chiudo con un anedotto.
Io vivo da solo e una notte mi è venuto un crampo alla gamba, così mi sono alzato dal letto e mi sono aggrappato alla porta della camera, solo che la porta si è chiusa e io sono caduto di peso contro la stessa… mi sono sentito morire. Non riuscivo più a respirare e non vedevo alcunché, inoltre, la mia preoccupazione era di capire com’era messa la gamba, se si era rotta. Ero nel panico.
Io ho una teoria: noi abbiamo il cervello diviso in due, uno è quello “cattivo” che ti dice di lasciarti andare. Infatti, pensavo: “Sono stanco, non ce la faccio più. È un anno che vado avanti così, preferisco morire e basta!”.
L’altra parte del cervello ha iniziato a dirmi: “Ma cosa fai? Sei stupido? Non sei forse un maestro di karate? Non insegni ai tuoi allievi di non mollare?”. Allora ho incominciato a fare la respirazione del karate, respiro e contrazione, respiro e contrazione… finché l’aria, piano piano, è tornata e il respiro si è fatto regolare. Poi, sono riuscito a rialzarmi e ho telefonato a mio figlio, mi sono ridisteso sul letto e ho aspettato.
Insomma, ho usato quella respirazione di quando, per esempio, si prende un pugno al fegato e manca l’aria.
Questo è stato un esempio di cosa mi è successo il primo anno ed è stato il karate ad avermi salvato.