I profani hanno sempre pensato che la pratica di uno sport di combattimento o di un’arte marziale equivalesse a imparare a difendersi…
di IlioSemino
Il problema e la necessità di difendersi dagli altri suoi simili è stata per l’uomo una delle prime cose da affrontare. La storia è stracolma di episodi veri, romanzati o frutto di fantasia, nei quali qualcuno ha dovuto difendersi da qualcun altro.
Con il trascorrere degli anni (e dei secoli) i sistemi di autodifesa si sono evoluti e hanno seguito di pari passo l’evoluzione fisica e culturale degli uomini, riferendosi di volta in volta alle arti marziali e agli sport di combattimento maggiormente in voga nel momento o ai metodi specifici di difesa corpo a corpo dei vari “reparti speciali”, lasciandosi trasportare da interminabili discussioni su quale fosse il più efficace.
Questo poiché, erroneamente, i profani hanno sempre pensato che la pratica di uno sport di combattimento o di un’arte marziale orientale equivalesse a imparare a difendersi, ignorando che la pratica sportiva o amatoriale di dette discipline nulla ha a che vedere con la lotta per la vita vera e propria, particolarmente poi se attuata in reale difficoltà fisica ed emotiva.
… il praticante utilizza lo scontro con l’avversario per il raggiungimento della conoscenza del suo “io”.
Lo sport è l’espressione atletica, tecnica, tattica e psicologica di un praticante allenato a compiere determinati gesti, in un contesto di gara regolamentato e nei modi, negli spazi e nei tempi, controllato da uno o più giudici che ne garantiscono la regolarità di svolgimento e l’uniformità di giudizio. I contendenti si confrontano su posizioni di similitudine fisica e tecnica (peso, grado, età, sesso ecc.), nel pieno rispetto delle regole e dell’avversario, utilizzando appropriate protezioni che limitino o addirittura evitino la possibilità di arrecare danno (guantoni, para-nocche, paradenti, caschetti vari, conchiglie, corpetti ecc.).
L’arte (anche quella comunemente chiamata “marziale”) è l’espressione dei sentimenti e della personalità dell’individuo. Nella pratica del judo, dell’aikido, del ju jutsu, del karatedo, ovvero di tutte quelle attività in cui non si usano armi proprie o improprie, il praticante utilizza lo scontro con l’avversario per il raggiungimento della conoscenza del suo “io”, per evidenziare e superare i propri limiti, in un contesto di mutua collaborazione in cui il partner diventa il mezzo per il raggiungimento dell’obiettivo; “ji ta kyoei”, insieme per migliorare.
L’arte non può essere un mezzo per offendere e neppure per rispondere a un’offesa. Deve rimanere un’arte, nel senso più profondo del termine. E allora? La difesa personale da dove si impara?
La difesa personale è nell’uomo. Una tecnica di attacco o di difesa, un sistema di “self defence”, un’arma, non è mai migliore o peggiore di un’altra: è l’uomo che ne fa uso che la rende efficace o inutile! La circostanza emotiva, la determinazione, la prontezza di riflessi, abbinate naturalmente a una discreta tecnica, sono le cose più importanti per uscire indenni in caso di aggressione. Nella pratica amatoriale o sportiva la situazione è sempre virtuale; l’attacco dell’avversario è previsto e non è mai sconsiderato, sia dal punto di vista tecnico, sia emozionale, i pericoli provengono sempre da gesti tecnici conosciuti (secondo l’ortodossia delle varie arti), il pugno è un jab o uno tsuki, il calcio è un keri o uno chasse, le prese sono quelle kodokan.
L’importante è che il partner riesca nell’esercizio… poi toccherà a noi…
Nella pratica amatoriale o sportiva la situazione è sempre virtuale.
La realtà della strada è un’altra. Il malintenzionato ha il desiderio della sopraffazione della vittima, presumibilmente è abituato a esercitare la violenza, molto spesso è in preda all’ira o alla disperazione o preda di un raptus, magari è alterato dall’assunzione di alcool o droghe o è psichicamente instabile, è un violento abitato alla violenza. I suoi attacchi non seguono linee razionali, il suo comportamento e le sue reazioni alle difese sono imprevedibili, il tentativo di afferrare avviene con la spinta di tutto il peso del corpo proiettato verso la vittima, le sue unghie graffiano il collo e i polsi, colpisce con testate o sconclusionate sequenze di colpi casuali, il suo fiato è pesante, la sua saliva ci sbatte sul viso… Nessun arbitro lo ferma, non esiste il conteggio, non esiste il controllo e neppure lo jogai.
La vittima deve fare i conti poi con l’emozione, con il controllo e la gestione delle scariche di adrenalina che si generano in una situazione del genere, degli istinti e della paura. Nell’avventurarsi nella pratica della difesa personale per prima cosa si deve valutare con attenzione la capacità di superare questi elementi: poche tecniche di sicura efficacia, allenate per lo scopo specifico e deterrenza fisica e psicologica, grande capacità di autocontrollo, freddezza nella valutazione delle circostanze e poi… rapidi, precisi e spietati.
Sapremmo essere “spietati” sino alla fine e, da aggrediti, diventare a nostra volta gli aggressori dell’aggressore? Abbiamo seguito un allenamento specifico “giornaliero” e non bi-settimanale, dove abbiamo esercitato il condizionamento, la potenza delle tecniche, la resistenza, la capacità di prendere colpi, la fermezza di far finta di non sentire male??
Il termine “spietati” fa sempre storcere la bocca all’interlocutore, ma è in effetti la qualità più importante nella situazione di pericolo. L’aggressore non si lascerà impietosire dalla vittima, ma cercherà di sopraffarla con tutte le sue forze.
Se l’aggredito riuscirà a eludere il primo tentativo di violenza dovrà reagire in maniera risolutiva: infatti, un altro attacco del malintenzionato potrebbe essere fatale!
L’aggressore non si lascerà impietosire dalla vittima, ma cercherà di sopraffarla.
Grande importanza avrà poi il nostro atteggiamento, la sicurezza che riusciremo a dimostrare nei confronti dell’aggressore, senza essere spavaldi o presuntuosi, ma neppure intimoriti e sottomessi.
Dovremo cercare di “minare“ la sua certezza di sopraffarci, per mettere in crisi i suoi istinti di prepotenza.
In ogni caso ritengo che una buona “difesa personale” sia, per uomini e donne, quella di prevenire comportamenti che potrebbero essere pericolosi: aggirarsi in tarda sera in quartieri a rischio, ostentare orologi o monili preziosi, parcheggiare l’auto evitando di inserirla tra due furgoni che ne impediscono la vista, cercare di essere sempre vicini a un gruppo di persone, osservare nelle vetrine o voltandosi per attraversare la strada l’eventualità di essere seguiti ecc.
E se poi l’aggressione dovesse essere mirata verso di noi e avvenire per vendetta, gelosia, rancori personali e non fosse prevedibile e neppure negoziabile, affideremo le sorti dello scontro a tutti i fattori citati in precedenza e… buona fortuna.