Al centro della pedana i due contendenti di turno si muovono con competenza e si scambiano rapidi colpi, scanditi dalle battute dei piedi sul parquet…
di Ilio Semino
Sono accosciato sul lucido pavimento di legno verde scuro, perfettamente liscio e levigato. Su di una parete due lunghe bandiere verticali, di Giappone e Italia, sono ai lati dell’austera immagine del Caposcuola. Dalle finestre socchiuse entra l’aria di nebbia di Milano, i vetri sono appannati per lo sbalzo termico tra il freddo esterno e il caldo umido di sudore del Dojo.
Attorno a me grandi gocce di sudore testimoniano le recenti fatiche, frutto di interminabili scambi di pugni e calci durante l’allenamento di combattimento prestabilito, praticato a giro per oltre un’ora, con quasi tutte le oltre cinquanta cinture nere presenti nella sala e che è stato preceduto da una lunghissima serie di fondamentali. La giacca del karategi è zuppa, rigida come duro cartone, la stringa dei calzoni lascia un segno rosso e fastidioso attorno alle anche, l’arsura incendia le ascelle e l’inguine, le fronti sono madide di sudore…
Sono combattimenti duri, fisici e senza troppi fronzoli.
Ora è il momento del combattimento libero, jyiu kumite. I miei compagni di lezione sono sparpagliati attorno, ognuno concentrato verso il momento in cui il Maestro lo chiamerà a combattere. Osservo i loro sguardi: molta stanchezza, ma tanta voglia di cominciare. Al centro della pedana i due contendenti di turno si muovono con competenza e si scambiano rapidi colpi, scanditi dalle battute dei piedi sul parquet; i veloci spostamenti producono fischi tra il pavimento e i loro callosi talloni.
Sono combattimenti duri, fisici e senza troppi fronzoli, i colpi e le parate producono sordi rumori, i contrattacchi sono accompagnati da isterici kiai. Ogni tanto uno dei due viene colpito più forte e l’incontro è interrotto dal Maestro che, osservando il contuso con indifferenza e impazienza, attende di ridare il via. Non appena il combattente annuisce e manifesta la sua disponibilità a ricominciare, l’altro lo saluta, entrambi pronunciano un sonoro “Oss!” e l’incontro riprende.
Osservo i compagni attorno a me: dai diciotto ai quarant’anni, li conosco tutti, sono tutti forti, seri e determinati. Nessuno di loro vuole sfigurare di fronte al Maestro e ai colleghi. Molti fanno parte della rosa della Squadra Nazionale, hanno combattuto in tutto il mondo, hanno conquistato titoli e rispetto. A volte sono tornati feriti, ma mai nell’orgoglio. Penso a quale di loro mi capiterà, allorché il Maestro mi chiamerà al centro per combattere: uno vale l’altro, tutti hanno i colpi del campione, tutti incutono rispetto, timore, paura… Il cuore batte più forte, l’adrenalina è in circolo e attraverso qualche misterioso processo chimico–psicologico, limita l’effetto dell’acido lattico, il sudore brucia gli occhi. Mi alzo, sgranchisco le gambe e scuoto la testa per liberare le tensioni cervicali.
Il cuore batte più forte, l’adrenalina è in circolo…
Il Maestro pronuncia il mio nome, stringo la cintura e deciso raggiungo il centro del tatami.
Improvvisamente mi accorgo che tutte le tensioni sono scomparse, non ascolto il nome del mio avversario, sono concentrato e sereno: mi accorgo che non ha più importanza sapere chi sarà colui che mi troverò dinnanzi quando inizierò a combattere contro me stesso, contro le mie debolezze, i miei timori, le mie ansie e le mie paure…
E ora: “Hajime!”