Disgiungere la crescita psicologica da quella fisica significa non riconoscere il fondamentale ruolo di “messa a punto” insito nella disciplina del Karate-do.
“Il nostro Dojo è come una famiglia dove gli allievi devono sentirsi fratelli che praticano insieme il karate”.
(Maestro Bonaventura de Felice)
Educare i bambini al karate risulta essere un compito arduo. In primo luogo, l’intervento educativo deve necessariamente partire dall’assunto che alla base delle dinamiche comportamentali, espresse durante la pratica del karate-do, vi sia al centro il bambino (legami, relazioni e comunicazioni) correlato ai suoi sistemi di riferimento e con i quali stabilisce legami che vanno a essere il modello/schema di condotta determinante nelle sue relazioni future.
Disgiungere la crescita psicologica da quella fisica significa non riconoscere il fondamentale ruolo di “messa a punto” insito nella disciplina del karate-do e la possibilità di fungere da ripristino dell’equilibrio tra il mondo interno e quello esterno del piccolo praticante.
Tale aspetto all’inizio della pratica (nel principiante) è inconsapevole, ma con il trascorrere del tempo, nel praticante esperto, diventa uno dei motivi della sua perseveranza (che fa rima con speranza). Una lettura attenta dei bisogni e delle necessità del piccolo praticante, pertanto, diventa un indice di forte influenza sulla sua perseveranza nella pratica.
Nell’orientamento della pratica educativa del karate risulta fondamentale, ad esempio, visualizzare le difficoltà.
Risulta fondamentale, a tale scopo, la qualità della formazione dell’insegnante (Maestro, Istruttore, Senpai etc. etc.) che si interfaccia a fasce d’età delicate, basti pensare semplicemente che le risorse e/o difficoltà presenti in famiglia sono la lente con la quale i bambini osservano il mondo e il loro modo di essere e, seppur in modo inconsapevole, le ripropongono nei contesti con cui entrano a farne parte.
I dojo, pertanto, diventano luoghi-occasioni per fornire ai bambini la possibilità di confrontarsi con un nucleo diverso dalla famiglia di origine per regole e legami, nucleo formato dal gruppo dei pari e/o persone adulte tutti distinti per grado di cintura.
È da specificare che l’uso del nostro modo di poter stare nel mondo in modo adeguato non dipende solo dalla nostra capacità di riuscire a trarre vantaggio dai contesti e dalle esperienze vissute, ma anche, e direi prevalentemente, dalle persone che noi assurgiamo come punto di riferimento nella crescita/maturazione emotiva, che possono a rafforzare e/o indebolire la percezione del nostro Sé, anche con una semplice parola o gesto fisico (soprattutto se negativi), in quanto possono impattare profondamente, fino a procurare ferite profonde nel piccolo praticante.
Nel karate tale punto di riferimento è rappresentato dal Maestro, percepito dal bambino/a come una figura adulta che diventa un “faro” nella pratica, un punto fermo continuativo, duraturo e senza una scadenza, con il quale instaurare un legame emotivo importante e non trascurabile per l’impatto che potrebbe avere nella sua crescita evolutiva.
La figura del Maestro, dunque, non può prescindere da una formazione che non sia solo tecnica: immaginiamo un Maestro grande studioso della tecnica, ma che non abbia mai acquisito competenze psicologiche adeguate attraverso una formazione specifica, né che l’abbia affinate con l’esperienza… La sola, “eccessiva” attenzione alla parte tecnico-pratica che poi trascuri lo sviluppo psicologico; l’utilizzo di un monotematico approccio al bambino, invece di adeguarsi alla sua sensibilità, diventa inevitabilmente il fallimento del significato più alto che si trova nella parola MAESTRO, senza contare quale danno possa procurare una tale trascuratezza, portando l’allievo a sentirsi “incapace” di poter andare avanti nel cammino, fino ad arrivare a colpevolizzarsi oppure a lasciare la “via”, senza capirne la motivazione reale.
La richiesta di adattamento al rituale del karate, alle sue regole, per un neofita risulta qualcosa di strano.
Insisto sulla formazione continua e sulle skills psico-relazionali da acquisire, da parte di chi deve essere un esempio, perché incidono significativamente sulla storia di un minore in fase di crescita, per cui è necessario essere consapevoli dei danni e delle risorse che si è in grado di creare.
Nell’orientamento della pratica educativa del karate risulta fondamentale, ad esempio, visualizzare le difficoltà, il grado di relazione che si riesce a elicitare dal piccolo praticante, senza mai trascurare la propria soggettività, fino ad arrivare a comprendere che per definire “il dilemma” che può emergere (se continuare nella pratica o meno) è necessaria una lente di osservazione circolare: in cui il bambino esiste in quanto tale per la sua relazione con i “fratelli di pratica”, con il luogo dove si pratica e con il maestro che “indica il Do”.
Facciamo, a questo punto, un ulteriore passo avanti.
“L’appartenenza è un sentimento, è il senso di inclusione e la percezione del proprio valore personale in un determinato contesto. Ci sentiamo appartenenti quando percepiamo di essere accettati come membri, quando le nostre differenze sono riconosciute e tollerate, quando ci sentiamo connessi con gli altri”. (G. Salerno)
Uno degli obiettivi nell’educare al karate è rendere effettiva la propria storia di vita, riedificarla, rappresentarla attraverso un movimento del corpo che è il canale comunicativo diretto delle nostre emozioni.
Nel corso della nostra vita siamo in grado di trovare strategie adattive che diventano delle vere e proprie “risorse di sopravvivenza”, per evitare che il dolore ci sovrasti, dolore che cerchiamo di confinare in un luogo lontano della mente, in cui smette di farci del male.
Tale risposta adattiva conduce al disconoscimento del nostro stato reale e questa sostituzione e/o forzatura ci permette di sentirci in una falsata armonia. La richiesta di adattamento al rituale del karate, alle sue regole, per un neofita risulta qualcosa di strano e lontano dal suo sistema di origine oppure tanto simile da rendere facile l’adattamento.
Equiparare i sistemi educativi con cui entriamo in relazione ha la sua incidenza significativa sia in quanto parte di una famiglia con ruoli e funzioni specifiche, sia per la dimensione educativa e di attaccamento.
Il karate-do può essere ed è un potente strumento che deve essere utilizzato attraverso competenze trasversali adeguate.
Un esempio potrebbe essere rappresentato da un bambino il cui genitore è assente e che riceve dal maestro un comportamento distanziante e/o rifiutante, se mai facilitato da un comportamento provocatorio o di apparente “disinteresse”: in tal caso si riproporrebbe un modello specchio di sofferenza, con conseguenze emotive importanti, provocando/accentuando, eventualmente, sentimenti di ansia, paura, angoscia, tristezza ecc. In tale situazione, invece, servirebbe un contenimento da parte di una figura forte e in grado di trasmettere sicurezza e serenità.
Il karate-do può essere ed è un potente strumento che deve essere utilizzato attraverso competenze trasversali adeguate, con grande responsabilità e “Maestria”.