Nell’epoca in cui tutto cambia alla velocità della luce, l’adattamento è fondamentale per non scomparire.
L’“altra parte di noi”, quella che ci contraddistingue in situazioni anomale, sotto stress, durante una sfida o un periodo difficile. La parte meno visibile, più nascosta, silenziosa, potenziale. Una risorsa, un peso.
Si parla spesso di resilienza: assorbire un cambiamento e tornare in una situazione di equilibrio. Un bel concetto preso in prestito dalla tecnica, come caratteristica dei materiali elastici, ma poi elaborato nel corso dei secoli per diventare un elemento rilevante anche in ambito psicologico e negli studi sull’ecologia.
Ma per quanto tempo un sistema, o una persona, può essere sollecitato senza generare reazioni avverse? In questo momento storico intravediamo forse l‘inizio di una risposta. O l‘inadeguatezza della domanda.
Aumenta sempre più la sensazione impalpabile di trovarsi in una dimensione parallela.
Gli ultimi dodici mesi hanno imposto al mondo un cambiamento di prospettiva che fatica a realizzarsi completamente. Nel mezzo di una crisi sanitaria ed economica, qualunque aspetto della vita quotidiana delle persone necessita di un aggiustamento, di una revisione. Forze sociali a contrasto e bisogni primari si danno battaglia ogni giorno. Guardando il telegiornale o leggendo le notizie, aumenta sempre più la sensazione impalpabile di trovarsi in una dimensione parallela, come se uno scenario del genere non potesse davvero esistere. Invece questa realtà è figlia del nostro modo di vivere, solo che la maggior parte di noi non aveva gli strumenti – o la fantasia – per immaginarla.
Penso spesso al concetto di esho funi, “non dualismo tra uomo e natura”, che vorrebbe ricordare all’umanità come al di fuori delle leggi naturali, lontano dai processi lenti, eleganti, ritmici della natura, si generi il rischio di desertificazione – anche letterale – del mondo fenomenico e delle relazioni.
“Dal momento che il sistema ecologico del pianeta, le relazioni sociali e la vita interiore dell’individuo sono mutuamente connessi, il potere armonizzate della compassione e della saggezza possono realizzare una trasformazione che diventa la base per la soluzione dei complessi problemi globali. Umanità e natura, società umana e universo interiore sono tutti intimamente interconnessi, e la forza vitale degli esseri umani è sempre l’asse principale per la trasformazione di tutti e tre.” (Tratto da Essere umano e ambiente: la prospettiva buddista – Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai)
Oggi rabbia e sgomento tendono a prevalere, ma tante persone, pur combattendo contro preoccupazioni e paura, si impegnano quotidianamente nel tentativo di costruire qualcosa o di tenere vivo un fuoco. Grazie a loro l’umanità può ancora brillare di fronte ai peggiori scenari, allo sciacallaggio, alle strumentalizzazioni. È questa l‘altra parte di noi che dovrebbe prevalere e, mentre lo scrivo, mi rendo conto di quanto sia difficile, soprattutto per chi sta combattendo per rimanere a galla, per chi va a dormire la sera senza sapere come riuscirà a gestire la crisi di domani.
Non è banale aggrapparsi a qualcosa per sopravvivere, artisticamente, umanamente, economicamente. Non è nemmeno semplice riconoscere qualcosa che valga davvero la pena afferrare. Tante persone che conosco si sono aggrappate allo sport. Per molte era un conforto prima della pandemia, per altre lo è diventato, ritagliando in casa pochi metri quadrati di spazio, facendo largo uso di verande, giardini, terrazze, spazi comuni dove muoversi… Dirette Instagram, stanze di Facebook e Zoom, condivisione di video e strumenti multimediali per consentire l’apprendimento in un contesto non ottimale. Palestre chiuse, se non per una breve parentesi, allenamenti all’aperto, soluzioni creative.
Tantissimi maestri e istruttori hanno trovato il modo di trasportare le loro discipline su piattaforme digitali, adattando gli allenamenti a spazi ridotti e accettando compromessi pur di mantenere vivo un gruppo di pratica e per continuare a trasmettere i valori della propria disciplina.
Dall’inizio dello stato di emergenza a oggi, si può dire che io non abbia mai smesso di allenarmi. Il karate che pratico da quasi vent’anni e la ginnastica funzionale, che mi accompagna da quasi cinque, sono rimasti il cardine delle mie giornate, il momento di evasione, una medicina contro l’ansia e un mezzo per mantenere rapporti sociali in un’epoca che sarà ricordata, tra le altre cose, per il distanziamento fisico e la limitazione dei contatti. Abbiamo perseverato, nonostante le difficoltà. Abbiamo rinunciato al Karate allenato in presenza, alla sensazione del kime vissuto dal vivo, mettendo in standby li kumite per molto tempo. Ci siamo privati di una parte fondamentale, ma non ci siamo fermati.
Questa resilienza è oggi più che mai al centro di tutto il mondo sportivo dilettantistico.
Non so cosa succederà a numerose società e palestre nei prossimi mesi o anni, ma ragiono spesso su quanto ciò che sta accadendo mi stia influenzando come persona e come praticante di arti marziali.
La superficie piatta degli schermi che utilizziamo per l’allenamento in casa è uno strumento essenziale, ma è anche un impersonale mezzo di collegamento. La tecnologia che ci viene in aiuto è, allo stesso tempo, fonte di nervosismo.
Un computer per lavorare, per intrattenersi, per studiare, persino per fare sport. Tutto si riduce alla monodimensione dell’esperienza digitale, schiacciando la profondità del mondo in un ammasso ben organizzato di pixel.
Un computer per lavorare, per intrattenersi, per studiare, persino per fare sport.
Conciliare un‘arte marziale con il digitale è una sfida importante. Una disciplina che racconta la spiritualità e il condizionamento fisico, che vive di incontri e scontri, di parate, ritmo e potenza non è facilmente trasportabile sullo schermo. I praticanti più esperti riescono probabilmente ad adattarsi, anche grazie alla profondità del bagaglio tecnico e nozionistico acquisito nel corso degli anni, ma mi chiedo fino a che punto e con quali risultati si possa continuare a fare.
Personalmente ho sperimentato che questo nuovo modo di fare allenamento centra la mia attenzione sui dettagli relativi alla posizione del corpo. Nello spazio limitato della mia stanza, quando mi muovo, dovendo spesso fare ricorso all’uso del kirikaeshi, aumenta la sensazione di consapevolezza. Tutti i vizi di forma vengono in un certo senso amplificati, come se gli errori acquisissero un’eco nei pochi metri quadrati a disposizione tra il letto e l’armadio. Sebbene questo sia positivo, nell’arduo compito dell‘auto-miglioramento, si ha anche la sensazione di avere il freno a mano tirato, di non riuscire – di non potere – lasciarsi andare. È faticoso trovare reale soddisfazione e riscontro.
Forse non è sempre facile ammetterlo nel mondo delle arti marziali, ma il dubbio e l‘incertezza fanno parte della natura umana e sono probabilmente le radici di ogni talento, studio, realizzazione, opera. Allo stesso tempo, possono diventare l’anticamera di un’ansia serpeggiante o di un’immobilità impenetrabile. È complesso, in una situazione come questa, trovare stabilità e gratificazione nelle vie di mezzo, nelle zone grigie in cui oggi siamo costretti. Eppure, è proprio in queste zone grigie che diventa possibile costruire un piano, una strategia, una filosofia, un modo di relazionarsi con il mondo che non sia soltanto “io”, ma che comprenda gli infiniti punti di vista e potenzialità delle persone e delle circostanze. Risulta forse più semplice adottare il punto di vista definito e solido del bianco o del nero, ma non sono sicura che questo sia sempre possibile o sempre salutare.
Durante un periodo storico che ci spinge al confinamento davanti a uno schermo, l’approccio positivo alle zone intermedie deve forse diventare il fulcro per un cambio di direzione, proprio qui dove i piani sono incerti, dove il futuro è un essere ancora più inconsistente del solito, dove il meglio di noi stessi fatica a trovare conferma e approvazione negli occhi dell’altro, perché l’altro non è qui.
Qui siamo noi, solitari, alla ricerca di una connessione palpabile in una dimensione composta da pixel. Al digitale manca la qualità del teoricamente infinito che è propria dell’analogico. È la sfida tra grandezze matematiche, discrete, numeri che trasformano il movimento e i colori in immagini e flussi di immagini, e l’imponderabile sostanza dei corpi e dello spazio sensibile. Il digitale come mondo di contrazione, di limitazione, nonostante sia paradossalmente in grado di connettere tempi e spazi lontanissimi nell’arco di pochi secondi.
Per quanto sia vero che alcuni limiti ce li impone la nostra mente, è necessario anche riconoscere che i luoghi fisici e la condivisione dei luoghi con l’altro hanno un ruolo non secondario nel modo in cui viviamo la nostra esistenza. Come la geografia dei territori influenza particolari caratteristiche dei popoli, così la possibilità di praticare insieme in spazi predisposti, guardandosi negli occhi, ha un valore non trascurabile.
È anche per questo che, continuando a praticare in condizioni non ideali, è necessario preservare la ritualità dell’arte marziale in ogni fase dell’allenamento, a partire dalla vestizione, fino al saluto finale, per garantire che non venga trascurata e compromessa la natura stessa della disciplina. Potrà capitare di sentirsi vinti o pervasi da una sensazione spiacevole di perdita e ingiustizia. È certamente vero che, come praticanti, stiamo rinunciando a qualcosa di prezioso, per quanto si cerchi di rimediare con caparbietà, costanza e creatività.
Il movimento sportivo dilettantistico sta viaggiando verso una grande crisi e se sopravvivrà in modo ottimale, sarà perché i presidenti delle società, i collaboratori, gli insegnanti e i praticanti avranno trovato la forza di risollevarsi, aiutati dalla passione, dal senso del dovere e dallo spirito di rivalsa.
Le quattro mura casalinghe che oggi ci proteggono dalla pandemia, diventano ormai anche la dimensione primaria in cui ricostruire una parte delle attività che svolgevamo in altri contesti. E mentre ricostruiamo – o tentiamo di non distruggere –, dobbiamo cercare nuove motivazioni, altri punti di vista, capaci di sostenere una realtà non più convenzionale. Ancora una volta, nell’epoca in cui tutto cambia alla velocità della luce, l’adattamento è fondamentale per non scomparire. Qui si ripropone la domanda iniziale: per quanto tempo – e con quale entità – un sistema può assorbire cambiamenti senza sviluppare reazioni avverse?
Non si vede la fine, non possiamo sapere quando si realizzeranno le condizioni per una nuova duratura normalità; mi sembra che l‘attesa di quel momento stia influenzando le nostre scelte almeno quanto la pandemia stessa.
Al digitale manca la qualità del teoricamente infinito che è propria dell’analogico.
Il Karate sopravvive nel tempo perché contiene valori e strumenti di crescita capaci di risuonare nell’animo umano. Nel karate possiamo certamente trovare i mezzi per superare anche questo momento storico, sebbene non sarà un processo immediato, lineare e privo di perdite.
Non mollare, aggrapparsi a ciò che riconosciamo e in cui abbiamo fiducia, è fondamentale, ma è anche faticoso e non è uguale per tutti. Le persone reagiscono in modo differente alle situazioni di stress e in genere serve tempo per metabolizzare alcuni cambiamenti; a volte si è così radicati nelle proprie abitudini, che l’idea di agire al di fuori della propria norma, determina a priori una rinuncia. Mai come ora i limiti più intimi e i punti di forza che ci contraddistinguono diventano la radice per creare nuovi scenari o disfarne altri che credevamo consolidati. Nelle situazioni di crisi si realizza un potenziale, oppure si dissipa.
È l‘altra parte di noi che si manifesta – per forza o per scelta – in modo ordinato, strutturato oppure grazie a tentativi, errori, gradi di caos.
Siamo tutti qui, a metà tra due rive, mentre ci guardiamo intorno e facciamo inventario e bilancio del prima e del dopo; ma il dopo continua a cambiare, le prospettive non sono chiare. Possiamo solo concederci una riflessione, usare le superfici piatte degli schermi come uno specchio, continuare a praticare, afferrare quel conforto che siamo soliti trovare nell’arte marziale, proseguire questo cammino senza interrogarsi eccessivamente sulla meta, giacché la meta non fa differenza e, forse, nemmeno esiste.
“La serenità è il frutto della rassegnazione all’incertezza.” Nicolas Gomez Davila