Dopo il periodo di astinenza forzata dagli allenamenti, le palestre si sono riaperte. Abbiamo rivisto il nostro insegnante e i nostri compagni e ripreso ad allenarci per davvero.
Non basta indossare un gi per fare karate: ce ne accorgiamo ogni volta che guardiamo un film che ha la pretesa o la velleità di parlare del nostro mondo senza averne le competenze. Peggio ancora quando siamo proprio noi che, con le migliori intenzioni del mondo, falliamo nel nostro scopo per le ragioni più varie. Forse chi ci osserva crede veramente che noi stiamo praticando la nostra arte, ma noi, che almeno in teoria siamo competenti, non possiamo ingannare noi stessi.
In questo strano, interminabile periodo di astinenza forzata dagli allenamenti e di lontananza dal nostro dojo, abbiamo provato a colmare questo vuoto con surrogati insipidi quali le lezioni a distanza, ma abbiamo capito ben presto che non facevano per noi. La bravura degli insegnanti e la buona volontà, che ci avevano indotto a sgombrare una stanza e a trasformarla in un improbabile tatami improvvisato, non hanno realizzato il miracolo. La “quarta parete” è rimasta intatta e noi siamo sempre stati consapevoli di recitare. Mediocri attori coinvolti in un dramma collettivo che un clic sul mouse sarebbe bastato a interrompere, quando non ce la facevamo più col fiato o più spesso con l’autoinganno.
Abbiamo messo e tolto le mascherine, ci siamo disinfettati e siamo finalmente saliti sul tatami.
L’estate è arrivata e finita e le palestre si sono riaperte, almeno quelle private, perché le scuole stentano ancora a concedere i loro spazi preziosi alle associazioni dilettantistiche.
Molti di noi hanno (forse provvisoriamente) rinunciato al ruolo di “maestri”, che mai come in questo periodo ci è suonato velleitario e autoironico, per dedicarsi al difficile compito di ritornare praticanti. Abbiamo rivisto il nostro insegnante e i nostri compagni e ripreso ad allenarci per davvero, sia pure con le restrizioni imposte dalle nuove “regole del gioco” e dalla saggia prudenza degli amministratori della palestra.
Abbiamo messo e tolto le mascherine, ci siamo disinfettati e siamo FINALMENTE saliti sul tatami, rispettando le distanze, ciascuno in corrispondenza di una tacca segnata sul pavimento. Distanziati, abbiamo fatto il saluto e cominciato ad allenarci. Per il momento soltanto fondamentali e kata, rimandando a tempi migliori la pratica del kumite e del bunkai in coppia. Per fortuna il repertorio del karate “tradizionale” è tanto vasto da poter ovviare a questa mutilazione, senza che ci manchi mai il materiale sul quale esercitarci. Abbiamo scoperto con una certa preoccupazione quanto abbiano inciso sul fiato e sulla precisione questi sei mesi di astinenza quasi completa. Posizioni, calci, rotazioni delle anche e spostamenti ci costano ora uno sforzo doloroso per un risultato sempre insoddisfacente.
Ma, soprattutto, il karate non c’era ancora. In quel contesto che non permetteva l’autoinganno, alla presenza del maestro e dei compagni, tutto ciò che riuscivamo a pensare era come arrivare senza troppi danni alla fine della lezione, sia pure abbreviata a 45 minuti dalla necessità di liberare al più presto gli spogliatoi per la lezione successiva. Piegati in due per recuperare il fiato, oppure furtivamente usciti dai ranghi per evitare un clamoroso “black-out”, il karate non c’era più.
Eravamo semplicemente fuori forma, demotivati e spaventati, o si trattava di una perdita irreparabile e definitiva?
Verranno ancora i tempi dell’affanno e dell’insoddisfazione, ma forse il peggio è passato.
Poi, una sera, dopo sette o otto fallimenti, il primo a cambiare è lo stato d’animo. Non più quello di un vecchio ronzino mandato al macello, un occhio al maestro e l’altro all’orologio, ma quello di un praticante volenteroso anche se inesperto.
Dobbiamo eseguire la combinazione kizamizuki-gyakuzuki in tutte le direzioni, ruotando due volte di 45°, poi di 90° e di 180°, ed ecco che improvvisamente la combinazione mi esce da sola, insieme a un kiai che tante volte mi è rimasto in gola e che, in effetti dice il Maestro, sarebbe più prudente effettuare “in sordina”. Ma tale è la sensazione di sollievo e di liberazione che anche il kiai esce da solo, chissà da quale remota lontananza! Il maestro mi guarda sorpreso e corregge il mio hikite, ma finalmente ha qualcosa da correggere… E come se tutto dovesse concorrere a lasciarmi un bel ricordo, dopo i fondamentali eseguiamo, con gli opportuni adattamenti, il kata Gojushiho-sho, quello che, in tempi che mi sembrano ormai lontanissimi (in realtà il 2013), ho portato all’esame di 5°dan. E miracolosamente ritrovo almeno un pezzo di questo kata e, come tutti gli altri, lo eseguo senza fatica per tre volte.
Chi se ne frega della doccia sovraffollata? Posso farla a casa. Mi cambio in fretta e scivolo via, felice che il mio karate abbia dato segni di nuova vita. Non mi illudo, verranno ancora i tempi dell’affanno e dell’insoddisfazione, ma forse il peggio è passato.
Lampi di karate, è quello che per il momento posso sperare di recuperare.