Nell’eseguire un kata non è possibile che il fluire dell’energia cessi una volta completata la tecnica, fosse anche il terzo zuki di una sequenza, accompagnato da un kiai.
La fortuna di avere come insegnante il maestro Carlo Fugazza, presidente della Commissione tecnica della FIKTA, non consiste solo nella possibilità di trovarsi davanti un eccellente modello e un inflessibile quanto amichevole giudice del proprio livello tecnico e spirituale. Spesso, forse anche per concedere ai meno atletici tra di noi un attimo di respiro, ci parla brevemente degli aspetti meno ovvi della pratica, dandoci talvolta delle brevi ma folgoranti “illuminazioni”, che ci mostrano l’impervio cammino da seguire per arrivare alla vera maestria. Venerdì scorso, dopo la prima o seconda esecuzione del kata Sochin, ci ha aperto gli occhi a quella che, in mancanza di una definizione migliore, chiamerò la tecnica del “non finito”.
L’arte è emozione, vibrazione dell’anima e quindi libertà, e il non finito è la massima espressione di autonomia
Questo termine proviene dalla storia dell’arte e fa riferimento ad alcune opere, soprattutto di Michelangelo e di Leonardo, che ai nostri occhi appaiono soltanto abbozzate o comunque non portate a compimento. Non si tratta, nella maggior parte dei casi, di mancanza di tempo o di insoddisfazione dell’artista. Secondo la studiosa Ilenia Carbonara “Questa tecnica è l’unica in grado di ‘denunciare’ un animo ribelle e sorprendentemente moderno per l’epoca secondo cui l’arte, il suo senso più profondo, va ben oltre la rappresentabilità attraverso la materia, non può essere limitata dal buon gusto dettato da uno sterile insieme di regole accademiche; l’arte è emozione, vibrazione dell’anima e quindi libertà, e il non finito è la massima espressione di autonomia che Michelangelo ha potuto trovare, per uscire da rigidi schemi fatti di proporzioni e formalismi”.
Anticipando quanto diremo del karate, il “non finito” nella nostra disciplina consisterebbe nel non interrompere il movimento una volta completata la tecnica, ma nel mantenere una tensione fisica e mentale che consente di passare, senza interruzione nella fluidità del gesto, alla tecnica successiva, poco importa se nella stessa direzione (gedan barai – oizuki in Heian Shodan) o in direzione diversa (oizuki – uchi gedan uke in Jion).
A uno sguardo superficiale il karate sembra andare in direzione esattamente contraria: il kime totale “congela” la parata in un “fermo immagine” facile da cogliere, anche da parte di un profano, e il contrattacco successivo sembra ripartire da zero per acquisire la massima velocità e arrestarsi a contatto col bersaglio, con un controllo perfetto che non fa che sottolineare l’enorme energia sprigionata.
Cinquant’anni fa furono proprio il kime e il controllo degli zuki del maestro Shirai contro il mento del simpatico Gastone Bertolazzi ad affascinarmi e a farmi iscrivere al CSKS di via Bezzecca.
Tuttavia, se la teoria del KI e dell’energia interiore ha un senso (e la parola kime, secondo il Glossario di kendo, significa “focalizzazione delle forze psicofisiche, concentrazione dell’energia nel momento in cui si colpisce”), non è possibile che il fluire dell’energia cessi (“vada a morire”, per usare un’espressione molto efficace usata dal maestro Fugazza) una volta completata la tecnica, fosse anche il terzo zuki di una sequenza, accompagnato da un kiai. C’è sempre il prossimo avversario che ci aspetta e non possiamo certo presentarci davanti a lui in affanno, intenti a inspirare mentre lui ci attacca…
Quell’emozione, vibrazione dell’anima e libertà che spingevano Michelangelo a scolpire in quel modo, deve anche ispirare chi esegue un kata ad alto livello, per superare il limite del singolo attacco o del singolo avversario. Fino al livello di cintura nera primo o secondo Dan, ci ha fatto capire il maestro, può anche andare bene questa esecuzione tecnica per tecnica, cercando ogni volta la massima velocità e la massima contrazione finale. La fase successiva, indispensabile per chi non si limita ad eseguire, ma interpreta un kata, consiste nel concepirlo come un unicum, che non va interrotto, ma portato a termine, smussando gli angoli e arrotondando gli spigoli per non ostacolare il fluire dell’energia.
Sensei, nei kata non ci deve fermare mai? Neppure dopo il kiai?
Una trentina di anni fa (curioso che me ne ricordi solo ora) era stato il maestro Nishiyama a mostrarci questo modo per noi ancora sconosciuto di eseguire i kata: scelse un kata “quadrato” e apparentemente abbastanza “scolastico” come Jion e chiamò fuori a eseguirlo la nostra squadra nazionale di kata, fresca vincitrice dei campionati europei.
Mentre noi contemplavamo ammirati le posizioni da manuale, l’ottima tecnica e la perfetta sincronia del nostro terzetto d’oro, il ruvido Sensei dall’inglese molto approssimativo, ma dalle idee chiarissime, si appostò nel punto di arrivo del capofila dopo la sequenza ageshuto ageuke… oizuki (kiai!) e nel momento in cui consolidava la posizione chiudendo le anche, gli afferrò i fianchi imprimendo loro una rotazione in direzione contraria alle lancette dell’orologio. Il campione, dato che era un campione, traballò ma recuperò subito l’equilibrio, eseguendo la parata combinata jodan uchi uke destro e gedanbarai sinistro in kokutsudachi. Nishiyama naturalmente non si accontentò, ma lo tallonò da vicino, intervenendo altre tre volte proprio dove lo svolgimento del kata suggeriva una pausa più lunga. Dopo la lunga sequenza in direzione frontale culminante con juji uke nagashi uke urakenuchi e perfino dopo il terzo otoshi uke. Alla fine del kata, il campione era esausto e perplesso, ma il maestro Nishiyama, sogghignando non saprei se beffardo o soddisfatto, commentò: “Good. Very good”.
Alla fine della lezione, un istruttore più curioso o meno timido degli altri si avvicinò al maestro che stava avviandosi verso lo spogliatoio e gli chiese in inglese: “Ma allora, Sensei, nei kata non ci deve fermare mai? Neppure dopo il kiai?”. Nishiyama lo guardò sorpreso che non avesse ancora capito e spiegò paziente: “Il kata è come un pendio affrontato con gli sci. Si può accelerare quando è diritto, si può rallentare quando gira, ma non ci si ferma mai, fino alla fine. Chi si ferma è un “rookie”, un principiante”, anche se ha la cintura nera ed è campione d’Europa.”
Nella sua lezione di venerdì, il maestro Fugazza ha ripreso questa idea associandola alla necessità di una respirazione corretta, partendo dal kata Sochin: alla fine di una tecnica lenta (come le due parate iniziali) è necessario inspirare rapidamente e brevemente per preparare la tecnica successiva. Solo l’uso corretto della respirazione consente di eseguire questo o un altro kata “fermandosi senza fermarsi”, come si è espresso il maestro con un felice ossimoro: un interprete di alto livello è in grado di dettare il ritmo del kata esaltandone la continuità senza lasciarne in ombra i momenti più salienti, spesso, ma non sempre, sottolineati dai kiai. È qualcosa di molto diverso dal “lasciarsi portare dal kata”, ovvero affrettarne l’esecuzione per arrivare alla fine, come chi si lascia prendere la mano da un cavallo imbizzarrito.
Solo l’uso corretto della respirazione consente di eseguire questo o un altro kata “fermandosi senza fermarsi”…
Il vasto repertorio di kata disponibile oggi su Internet mi consente per fortuna di suggerirvi esempi di alto livello per approfondire questa tecnica del “non finito” nei kata di karate. Forse il miglior modello di sempre è il maestro Yoshiharu Osaka, in particolare nella sua esecuzione apparentemente “trascurata” e “affrettata” di Sochin e Gojushiho-sho (reperibile su Youtube). Inutile dire che soltanto degli arbitri (e degli spettatori) altamente competenti ne possono apprezzare in pieno la grandezza. Forse non è invece superfluo sottolineare come il “non finito” del maestro Osaka si collochi agli antipodi rispetto a certe esecuzioni contemporanee tipiche del cosiddetto “karate sportivo”, in cui le pause si dilatano senza giustificazione alcuna e il flusso dell’energia interiore (?) si interrompe. A puro fine “estetico”, ma con quale idea del bello?