Le donne hanno voglia di tornare a esser donne nella loro integrità e nella bellezza di poter vivere libere.
Ogni 72 ore in Italia una donna viene uccisa da una persona di sua conoscenza, solitamente il suo partner; 3 femminicidi su quattro avvengono in casa; il 63% degli stupri è commesso da un partner o ex partner.
Molto si è fatto per sensibilizzare le coscienze, ma la strada è molto lunga.
Il corpo, come “contenitore psicofisico”, entra nel Dojo occupando uno spazio simbolico, privato e al contempo gruppale.
Quali cambiamenti nello stile di vita di una donna potrebbero essere introdotti nel modo di viversi se il termine corpo potesse essere inteso come un qualcosa in grado di prendere posizione e/o di reagire a uno stimolo aggressivo?
Da qualche anno, presso la asd Jishin-do di San Vito di Montecorvino Pugliano (SA), si sta sperimentando la possibilità di percepire la presenza di un “corpo”, non solo in senso fisico, ma anche in senso psicologico e sistemico attraverso un corso di difesa personale femminile svolto dal maestro di karate Bonaventura de Felice e dalla psicologa-psicoterapeuta praticante di arti marziali Tiziana Liguori. Proprio in questi anni si è potuto verificare un incremento delle iscrizione da parte di donne, ma anche di famiglie, che iscrivono le proprie figlie ai corsi di Karate con l’esplicita intenzione di renderle capaci di difendersi, segnale da un verso positivo, rispetto a un’accresciuta consapevolezza riguardo al “poter fare” delle donne, e dall’altro di un’emergenza crescente.
Che cosa, però, può rendere efficace un corso di difesa personale femminile? Probabilmente nel cambiare il modo di avere coscienza del proprio corpo come capacità e non come impossibilità, in quanto, anche antropologicamente, è considerato più debole rispetto a quello dell’uomo.
Il corpo, come “contenitore psicofisico”, entra nel Dojo occupando uno spazio simbolico, privato e al contempo gruppale, che acquista diversi possibili significati nella relazione con l’altro: sviluppare consapevolezza della propria posizione di genere può rappresentare uno strumento importante per qualunque persona.
Quando si inizia a praticare, in realtà, già si è alle prese con un cambiamento della relazione con il corpo e con la propria identità, che porta con sé il situarsi in modo nuovo nelle relazioni, prendendo coscienza della propria vulnerabilità come delle inaspettate risorse che questa porta con sé.
In sostanza, se si è in grado di sviluppare azioni per rafforzare le competenze individuali che vengono poi ri-vissute in un contesto di gruppo, al fine di mettere in atto e gestire un cambiamento riguardo i propri livelli di soglia-limite, il dojo diventa un luogo/specchio nel quale l’individuo può de-costruire il modo interiorizzato di viversi: un metodo di cambiamento dove lo strumento principe è la rivisitazione del proprio Sé.
L’esempio è quello del granello di sabbia che penetra nell’ostrica e la disturba inducendola a produrre una secrezione che dà vita a un oggetto meraviglioso: la perla (Boris Cyrulnik) rappresenta lo stesso disturbo che una donna sente quando inizia a ribaltare il concetto di se stessa in grado di reagire agli schemi interni indotti dal contesto sociale e che essa stessa ha fatto inconsapevolmente suoi, ma allo stesso tempo è la possibilità di sentirsi “perla” in un’attività di reazione fisica e psicologica.
Sviluppare consapevolezza della propria posizione di genere può rappresentare uno strumento importante per qualunque persona.
Si tratta di un processo attivo che si dispiega nella relazione dinamica fra la persona e il contesto (sociale, relazionale, istituzionale). Evidente risulta quando una donna decide di iniziare un corso o percorso di difesa personale in cui attraverso un timido e sconosciuto approccio cerca, per diversi motivi, a seconda dell’esperienza e/o del ciclo di vita, di imparare a difendersi. La sua specificità dipende dal fatto che la donna possiede una radicata immagine di se stessa non fisica, in cui la forza delle sue possibilità la esprime attraverso la capacità di contenere e gestire le propie emozioni attraverso il canale verbale e/o iconico.
La possibilità di familiarizzare con una parte di sé pone la stessa a ribaltare il proprio concetto interno nel riuscire ad avere la consapevolezza di possedere un corpo pensante e, quindi, in grado di reagire in modo funzionale alle situazioni stressogene, allenando la mente e il corpo a evitare il blackout totale che si verifica nei momenti di pericolo e di aggressione.
L’obiettivo è la creazione di una memoria del corpo: quali sensazioni prova in questo momento? Quali emozioni sta vivendo?
Non è solo un procedimento psico-educazionale, ma anche un intervento di cura poiché consente di creare, a livello neurologico, dei preziosi collegamenti che il soggetto può integrare nel proprio bagaglio esperienziale.
Dobbiamo aiutare la persona a far chiarezza su un aspetto fondamentale e cioè che la sensazione di non essere capace di reagire fa parte di uno stereotipo di genere e un pregiudizio sulle abilità.
Come ricorda Alice Eagly “La gente osserva i ruoli sociali ricoperti da donne e uomini e deduce i tratti che costituiscono gli stereotipi di genere. Gli stereotipi di genere quindi riflettono la posizione sociale dei gruppi nella società e, pertanto, cambiano solo quando questa posizione sociale cambia”.
Ed è proprio nel riuscire a distinguere ciò che si “è per se stessi”, immagine creatasi nel corso delle esperienze proprie di vita, da ciò che “non è se stessi”, immagine che si deve creare ex novo (attraverso i movimenti e l’osservazione del movimento del proprio corpo nello spazio), che si può scoprire la possibilità di influire sull’ambiente per mezzo dei movimenti e viceversa e, di conseguenza, comprendere che nel momento in cui bisogna intervenire è necessario andare “fuori dagli schemi”.
Un metodo di cambiamento dove lo strumento principe è la rivisitazione del proprio Sé.
Una sorta di rivoluzione, innescata dalle donne, da attuare per le donne, in funzione di un qualcosa che attraverso l’acquisizione di tecniche “sfrutta”, nella sua accezione positiva, il proprio corpo come arma di difesa per proteggere la limitazione della libertà andata persa per i continui abusi e le violenze perpetrate ai danni delle stesse, perché le donne hanno voglia di tornare a esser donne nella loro integrità e nella bellezza di poter vivere libere.