Nell’immaginario più comune al samurai si associa la katana, tanto da esserne divenuta un dettaglio iconografico, ma il suo ruolo variò nell’arco dei secoli.
Nell’immaginario più comune al samurai si associa solitamente la katana, tanto da esserne divenuta un dettaglio iconografico. Il design, il ruolo e l’importanza che la spada possedeva furono in realtà alquanto variabili nell’arco dei secoli e considerare questo tipo di sciabola come arma per antonomasia del samurai, potrebbe risultare limitativo e parzialmente inesatto dal punto di vista storico.
Differenti scenari e circostanze richiedevano differenti strumenti e tattiche, tanto che alcune armi risultano più propriamente associate al campo di battaglia. È il caso della yari (lancia) e del naginata (falcione), due armi inastate tra le più comuni nei contesti bellici dell’Era Sengoku, assieme allo yumi (arco) e al teppō (archibugio), e diventate desuete durante i successivi periodi di pace. La spada, invece, andò incontro a un vero e proprio riadattamento: le lunghe nodachi (spada da campo) e ōdachi (spada grande) caddero pressoché in disuso durante il periodo Edo a favore della più agevole portabilità di tachi e katana, rivelatesi più pratiche grazie alla loro minore lunghezza.
Esistono tuttavia ulteriori strumenti da combattimento, felicemente impiegati sia nell’ambito propriamente militare dell’Era Sengoku sia in quello civile finalizzato all’autodifesa del periodo Edo, e convenzionalmente definibili come “armi da taglio minori”.
In particolare nella tradizione della Sekiguchi Ryu, scuola che nasce nel periodo Sengoku e si sviluppa poi in quello Edo, esistono tre armi da taglio minori: la kodachi (spada piccola), il kaiken (pugnale) e il jingama (falcetto). Si tratta di armi utilizzate sia sul campo di battaglia sia in tempo di pace, alcune originate da normali utensili di lavoro adattati all’autodifesa e al contesto bellico.
Differenti scenari e circostanze richiedevano differenti strumenti e tattiche.
La kodachi è la “spada corta” che compone la popolare coppia di lame comunemente detta daishō (“grande e piccola”). Nel periodo Edo la daishō divenne il simbolo della classe dei samurai ed era indossata tra l’hakama (i pantaloni larghi giapponesi) e l’obi (fascia) sul fianco sinistro, con il filo di entrambe le spade rivolto verso l’alto.
Nella Sekiguchi Ryu esistono misure ben definite che standardizzano la lunghezza della kodachi, ma sono decisamente difformi da quelli di altre scuole. In generale, giusto a titolo di riferimento e tenendo presenti tutte le eccezioni possibili, si potrebbero considerare “spade corte” tutte quelle lame la cui lunghezza è compresa tra i 30 e i 60 centimetri circa.
Accadeva raramente che un samurai non portasse almeno una kodachi al fianco, anche quando per esigenze di etichetta doveva consegnare la spada lunga allorché compariva al cospetto di nobili di rango più elevato o perché era in visita presso la dimora di un altro samurai. La spada corta era il suo unico strumento di autodifesa, salvo ovviamente altre armi celate. Pertanto, saper utilizzare efficacemente tale arma risultava fondamentale.
A fronte di una notevole variabilità di misure, funzioni e denominazioni, anche l’arte di usare la spada corta non può che mostrare diverse sfumature. Genericamente tale sistema può essere denominato come “kodachijutsu”.
A prescindere comunque dalla denominazione dell’arte o dalle scelte di misure e tattiche d’impiego, l’uso di spade corte e daghe godeva di notevole importanza nei programmi delle scuole classiche. Le kodachi risultavano molto più versatili e pratiche nel combattimento ravvicinato, specialmente in fase di corpo a corpo. Ne è un lampante esempio la Sekiguchi Ryu che nascendo come scuola di jujutsu prevedeva diverse applicazioni impugnando – oppure affrontando – una spada corta, a testimonianza della contiguità tra kodachi e lotta ravvicinata sorta ed evolutasi dai campi di battaglia del periodo Sengoku.
Sul campo di battaglia la kodachi si rivelò forse la “vera” arma secondaria dopo la lancia, mentre per i combattimenti al chiuso costituiva una valido ripiego in caso di arma primaria danneggiata o persa, se non l’alternativa più congeniale quando una lama più lunga si rivelava poco efficace.
Il kaiken è un pugnale che generalmente non supera uno shaku di lunghezza. A seconda dell’epoca, della montatura, del design o delle finalità d’impiego, questo tipo d’arma poteva essere conosciuta anche come tantō, tanken, aikuchi, yoroidōshi, hamidashi, metezashi, giusto per citare i nomi più comuni.
Come per la kodachi, le misure di daghe e pugnali non erano fisse e la denominazione poteva variare a seconda della lunghezza. Nella Sekiguchi Ryu il kaiken è di circa 9 sun, ovvero poco più di 29 centimetri di lunghezza.
Nel caso del kaiken esiste il corrispondente termine di “kaikenjutsu” che denomina i metodi di combattimento con questo tipo d’arma. L’utilizzo di “tantōjutsu”, invece, sembra essere d’adozione più recente e poco usato negli antichi ryūha.
Combattere con un kaiken comprende tattiche ben più varie che il semplice limitarsi ad attaccare col pugnale. Chi lo impugna deve possedere una buona preparazione anche nei metodi di lotta, nonché un’efficace capacità di spostamento del corpo. Nella Sekiguchi Ryu in particolare, oltre alle originarie tecniche di kogusoku, esistono tecniche di contromisura per attacchi perpetrati con la spada lunga, dove chi impugna il kaiken deve dar prova di tempismo nel piazzamento del corpo e grande determinazione nell’esecuzione.
L’uso di spade corte e daghe godeva di notevole importanza nei programmi delle scuole classiche.
Il jingama è il falcetto da campo di battaglia, un adattamento prettamente militare dell’utensile agricolo detto “kama”, anch’esso utilizzato in Giappone come arma da tempi remoti. Non tutte le armi, infatti, nascono “come” armi, spesso gli attrezzi da lavoro usati nella vita quotidiana si adattavano al combattimento.
Di base il kama era un falcetto per uso agricolo dotato di un’impugnatura di legno levigato a cui era innestata perpendicolarmente una lama ricurva. L’affilatura e la qualità della lama, forgiata di solito da un comune fabbro, erano senz’altro diverse da quelle dei kama usati dai guerrieri, forgiate da spadai specializzati e di forma più dritta e corta rispetto alla versione “agricola”. Si tratta per l’appunto del jingama. Letteralmente il termine significa “falcetto da campo di battaglia” e lo si può considerare a tutti gli effetti l’adattamento militare del kama agricolo.
Il jingama era anche utilizzato per tagliare l’erba o la vegetazione più alta con lo scopo di creare una spianata su cui allestire un accampamento militare. Inoltre, l’utensile era usato per tagliare le corde con le quali sarebbero stati appesi i jinchūmaku, ovvero i drappi e le tende che circondavano l’interno dell’accampamento.
Il jingama figurava anche tra gli umagoya sangu (i tre attrezzi da stalla) ed era utilizzato per tagliare il foraggio per i cavalli e per liberarli in caso d’incendio appiccato dal nemico nella stalla. Per tale ragione questo tipo di falcetto era conosciuto anche come umayagama (falcetto da stalla).
Contrariamente a quanto potrebbe essere naturale pensare, il jingama non era un’arma d’uso esclusivo dei guerrieri di basso rango. Infatti, i samurai di livello elevato usavano questo falcetto come simbolo di comando per dirigere le truppe, nello stesso modo in cui erano soliti fare impugnando un gunbai (ventaglio di guerra) oppure un saihai (bastone di comando con una nappa di capelli o di carta). Per tale ragione esistono esemplari di jingama finemente lavorati sia nei materiali sia nei dettagli.
Le misure tipiche di un jingama sono di circa 6-9 centimetri per la lama dritta, spesso bifilare, inserita perpendicolarmente in un bastone lungo dai 30 ai 39 centimetri. Esistono versioni più grandi con un bastone di circa 54 centimetri, con una lama di 12-15 centimetri.
Il jingama era un’arma molto versatile e pratica. Oltre a poter recidere le redini della cavalcatura del nemico, ad esempio, era anche convenientemente usato nel combattimento in armatura (yoroi kumiuchi) per fendere le braccia e le gambe dell’avversario, oppure per tagliare i legacci della sua corazza o, ancora, per decapitarlo.
L’arte del combattimento che fa uso del falcetto è tradizionalmente denominata come “kama no jutsu” o più brevemente “kamajutsu”. Oggigiorno si è soliti identificare con questo termine le tecniche con i falcetti sviluppate nelle isole Ryūkyū e facenti parte del Kobudō di Okinawa, sistema correlato strettamente al Karate. In realtà kamajutsu si riferisce, in via più generale e onnicomprensiva, ai metodi di combattimento col kama utilizzati sia dai contadini sia dai guerrieri già da tempi antecedenti. Anche in Giappone, infatti, alcuni ryūha svilupparono metodi con due falcetti, denominati sōkamajutsu (arte del doppio kama) o nichōkamajutsu (arte con due kama). Si impugnava un’arma per mano: una era usata per parare, l’altra per contrattaccare. Nello specifico, circoscrivendo l’area d’interesse ai metodi della Sekiguchi Ryu, il sistema per l’impiego in combattimento del jingama prende il nome di “jingama no jutsu”.
I samurai di livello elevato usavano questo falcetto come simbolo di comando per dirigere le truppe.
Un jingama può essere usato per tagliare, fendere, squartare avversari armati. La lama del falcetto infliggeva danni seri a muscoli, tendini e naturalmente a vasi arteriosi e venosi. Generalmente si attaccava la parte frontale del corpo dell’avversario o in alternativa era possibile agganciare la caviglia di questi per sgambettarlo, recidendogli nel contempo il tendine d’Achille. Un’altra possibile modalità d’azione era quella di tagliare “a strappo”, in maniera più incisiva e profonda nel corpo del nemico, impugnando il jingama con una o due mani.
Nelle azioni difensive di parata e blocco era richiesta una certa attenzione onde evitare di perdere il possesso dell’arma, oppure di cagionarle qualche danno. Per questo bisognava valutare il tipo d’arma che impugnava l’avversario. Ad esempio, una spada lunga o un falcione avrebbero generato una potenza assolutamente impossibile da fermare con un jingama. Per questo motivo la strategia difensiva prevedeva un diverso approccio, ovvero muoversi più velocemente per fermare l’arma dell’avversario prima che generasse una maggior potenza, o parare in un punto in cui il bilanciamento era più debole. Nel caso di uno spadaccino, perciò, il blocco non avveniva in prossimità della punta della spada, ma vicino alla guardia, o meglio ancora, sulle mani.
In altri casi ancora, quando la lama del jingama era particolarmente piccola, si preferiva non fermare direttamente l’arma del nemico, ma agganciarla da dietro cercando di disarmare l’offensore.
Nota bibliografica
M. Colonna (2020), Arti Samurai: Armi e scienza militare della Sekiguchi Ryu, Pubblicazione indipendente.