Conclusosi l’ultimo anno della sua carriera agonistica, abbiamo intervistato Nicola Bianchi pluricampione nella specialità kata.
di Susanna Rubatto
Essendo stato il 2019 l’ultimo anno della sua carriera agonistica, abbiamo intervistato Nicola Bianchi pluricampione nella specialità kata.
Oltre che sul suo futuro, in qualità di veterano, gli abbiamo chiesto anche un’opinione sulle ultime gare FIKTA e sulla sua visione del karate.
Sono molto tradizionalista e credo che certi aspetti fondamentali, identitari del nostro karate, vadano esaltati e non modificati radicalmente.
Ci dai un parere sugli Assoluti FIKTA di quest’anno che ti hanno visto primeggiare nel kata?
Credo che l’organizzazione del campionato italiano FIKTA sia in una fase sperimentale in cui si provano diverse formule per raggiungere un’entità ben strutturata e riconoscibile. In questa edizione ho constatato infatti la tendenza da un alto a mantenere il nostro modo tradizionale, con giudizi arbitrali mirati a premiare i canoni essenziali del karate del Maestro Shirai, dall’altro ho visto l’ammirazione verso coloro che hanno gareggiato portando innovazioni e influenze provenienti da altre federazioni (WKF). Personalmente, per quanto sia molto contento che gli atleti cerchino di evolversi e che la nostra federazione apporti cambiamenti e novità interessanti, sono molto tradizionalista e credo che certi aspetti fondamentali, identitari del nostro karate, vadano esaltati e non modificati radicalmente.
Pensi dunque che riuscirà la FIKTA a mantenere le proprie radici del Tradizionale?
Le nostre radici si basano sul karate tradizionale e quindi sull’efficacia di mente, spirito e corpo, sull’attenzione al kime e allo zanshin, sulla capacità con la quale si affronta il proprio avversario, sia esso reale, immaginario o un compagno di allenamento. Il settore, diciamo più sportivo, premia maggiormente la spettacolarità perdendo forse il realismo dell’applicazione. Una aspetto questo che non condivido molto.
Probabilmente, essendo cresciuto nel karate tradizionale, non ho mai apprezzato il karate sportivo, né per il kata, né per le sue applicazioni. Ciò nonostante ammetto che mi piacerebbe ci fosse un po’ più di inventiva agonistica, cosa che quest’anno il regolamento ha permesso con la formula dei bunkai liberi. Credo fortemente nei bunkai e nella praticità delle tecniche dei kata.
Così sono cresciuto e così insegno ai miei allievi: ogni tecnica di un kata o del bunkai stesso va compresa e studiata per la validità pratica e da quel momento riprodotta nella forma del kata. Non mi appartiene un insegnamento il cui obiettivo è di rendere il tutto esteticamente più bello o più spettacolare, perché non è pieno davvero.
Per quanto riguarda i Campionati internazionali WSKA ed ESKA, che quest’anno si sono disputati entrambi e a distanza di un mese, qual è il tuo resoconto?
Ho disputato, a mio parere, due bellissime gare. Individualmente, sia al mondiale WSKA sia all’europeo ESKA, ho passato tutte le eliminatorie approdando alla semifinale e, per quanto non sia riuscito a centrare la finale, sono arrivato a un passo dalla classifica. Non nego l’amaro di non aver portato a casa la medaglia, ma credo di aver disputato due ottime gare che mi hanno regalato tanta esperienza. Competere a 35 anni, per quanto mi senta ancora giovane, è ben differente rispetto a quando ne avevo dieci di meno. Cambia il modo di porsi sul tatami, cambia la capacità e la relativa fatica di trovare la giusta energia, ma in particolar modo cambia l’obiettivo. Ho disputato queste gare internazionali misurandomi non solo sulla posizione della classifica che riuscivo a raggiungere, ma pensando a eseguire dei kata che mi dessero la sensazione della vittoria, indipendentemente dal risultato arbitrale.
A squadre, in entrambe le competizioni, con gli inestimabili compagni Francesco Rocchetti e Francesco Federico ce la siamo giocata, come ormai da qualche anno, con i Russi, lasciando loro il podio mondiale per un soffio, ma riconquistandoci la vetta nell’Europeo. Ed è stato fantastico concludere, in quest’ultima gara, vincendo con la mia squadra, vedendo montare sul gradino più alto mia moglie Annalisa con la sua squadra e infine, Alessandro Bindi, mio allievo, anche lui con la sua squadra. Una conclusione direi epica alla quale, non lo scorderò mai, sono stato festeggiato e inneggiato quale “Capitano”.
Con la 51ª Coppa Shotokan FIKTA si chiude tradizionalmente l’anno, ma per te si conclude anche l’agonismo, qui com’è andata?
Il “vero campionato italiano”, come dico io, si è concluso come era giusto: ho ceduto il primo posto, che detenevo da anni, al mio compagno di squadra [Francesco Federico nda], lasciando così il testimone in mani capaci e regalando ai miei allievi un valido obiettivo, presente sul campo dei prossimi anni. Questo è estremamente importante per me, perché mi dà la possibilità di far sognare tutti i miei allievi, facendoli mirare fortemente a un modello concreto e capace.
Inoltre, come non mi aspettavo, sono stato festeggiato da tutta la federazione FIKTA con grande grande calore. Il presidente Rino Campini ha speso parole importanti per me, mentre tutti, ma veramente tutti mi applaudivano. Poi il Maestro Shirai mi ha stretto la mano, per un tempo per me lunghissimo: “Così si fa, fino in fondo” mi ha detto “adesso però devi continuare, è importante che tu continui”. Ed è quello che farò fortemente.
Credo fortemente nei bunkai e nella praticità delle tecniche dei kata.
Come vivi la conclusione del tuo percorso agonistico?
Sono tanti anni che gareggio e le mie soddisfazioni me le sono prese. Ora per me inizia una strada differente, che in questi anni ho già delineato allenando i miei allievi, avvicinandomi a un karate più “pratico”, più profondo. Ciò non toglie che abbia comunque un po’ di dispiacere nel concludere un periodo che mi ha permesso di conoscere tanti amici, tanti avversari che poi sono diventati amici e che mi ha permesso di misurarmi in molte occasioni. L’agonismo mi ha regalato moltissimo, motivo per cui l’ho continuato fino all’ultimo
Secondo me l’agonista ha una “vena sognatrice”: quand’ero piccolo avevo dei “miti”, il primo fra tutti era Mirko Saffiotti (che poi fu il mio primo maestro). Un mito che aveva tutta la mia ammirazione, ma rappresentava anche la mia sfida principale. Dicevo a me stesso che dovevo arrivare al suo livello, dovevo riuscire a batterlo. Questo, che mi ha passato lui, e altri stimoli simili che ho ritrovato col mio maestro Mauro Gori, mi hanno permesso di essere un agonista ed è ciò che riporto ai miei allievi creando amicizia, rispetto, ma anche un po’ di sfida.
Nel tuo nutrito palmares c’è un obiettivo che non sei riuscito a raggiungere?
Come no! Ho vinto tanti Campionati Assoluti, tante Coppe Shotokan individuali, diversi Mondiali ed Europei a squadre, mentre invece individualmente, in campo internazionale, ho ottenuto tre argenti agli Europei, un bronzo ai Mondiali e quattro quinti posti, non ho mai conquistato l’oro individuale.
Nonostante la chiusura delle mie competizioni non ho però finito di gareggiare: non ho ancora conquistato quell’oro, ma avrò la possibilità di farlo per molti anni ancora… con Ale, Diego, Ele, Gio, Leo, Dani… e tutti i miei allievi. Essere un istruttore mi ha dato la possibilità di moltiplicare la mie possibilità agonistiche: ho tanti giovani “Bianchi” con cui provarci ancora.
Pensi a un futuro in veste di maestro?
Direi che più che per il futuro posso parlare del presente: insegno da diversi anni in tre associazioni, sto svolgendo il corso istruttori FIKTA e preparo i ragazzi dello CSAK Toscana kata.
Mi piace stare con i ragazzi, trasmettere loro quello che posso e vederli crescere. Ho sempre pensato che se un domani gli allievi di adesso non saranno più forti di me, forse avrò fallito qualcosa nel mio percorso. Per me, questo significa fare progredire il karate. Mi dispiace quando leggo sulle pagine social che “il karate passato era più duro o più forte o migliore” di quello attuale. Se una volta il karate era migliore di quello praticato oggi, credo che qualcuno o qualcosa o una somma di fattori, abbiano portato al fallimento dell’evoluzione del karate stesso. Da insegnante mi spendo e mi impegnerò sempre perché questo non accada in futuro.
Cosa ti piacerebbe vedere in FIKTA?
Mi piacerebbe venisse dato più spazio agli atleti che raggiungono importanti traguardi agonistici. In alcune federazioni estere, come la KUGB in Inghilterra, coloro che vincono nei circuiti ESKA o WSKA vengono “promossi”, dando loro la possibilità di fare stage ai ragazzi, trasmettendo i loro risultati agli allievi o inserendoli tra gli istruttori della Nazionale stessa.
Nella nostra federazione abbiamo insegnanti molto qualificati, preparati a 360 gradi, ma ciò non preclude la possibilità di premiare i nostri campioni dando loro modo di essere un tramite, uno stimolo per i più giovani.
Il Maestro Shirai mi ha stretto la mano per un tempo per me lunghissimo: “Così si fa, fino in fondo” mi ha detto…
C’è qualcuno nella tua specialità che reputi pronto a raggiungere grandi risultati?
Nel mio percorso si sono alternati livelli elevati di kata, a momenti in cui era più semplice raggiungere il podio. Ormai da qualche anno questo livello qualitativo si è alzato in modo progressivo e costante, e credo che continuerà a crescere visti i giovani promettenti che abbiamo di fronte.
I grandi risultati sono solo il frutto di una smodata dedizione e di tanto sacrificio. Un impegno forte di cui spero essere stato un esempio, specie per quei giovani che attualmente vedo lavorare duramente e che quindi mi sembra abbiano compreso che questo è l’unico metodo per raggiungere certe altezze.
Preferisco non fare nomi specifici sui campioni di domani e lasciare spazio ai ragazzi e alla loro forza di spirito di farsi conoscere, affermandosi ai livelli più alti. Tuttavia posso sicuramente citare coloro che si sono “fatti le ossa” con me, i miei ultimi compagni di Nazionale: Francesco Federico, Francesco Rocchetti e Alessandro Mezzena.