Un viaggio verso la fragilità umana, nella sua accezione positiva, come possibilità di ottimizzare la comprensione dei propri modi di esserci e di relazionarsi.
Si parla spesso di quale significato acquisti il karate per chi inizia a praticarlo e/o per colui che riesce a trovarne il suo senso a pratica inoltrata, ma non si sottolinea mai abbastanza che la pratica segue la persona e che, qualora quest’ultima si trovasse in una fase significativa della propria vita, a seconda delle caratteristiche di personalità, può diventare una messa in discussione, un ostacolo oppure una risorsa. È come rispondere alla domanda: nasce prima l’uovo o la gallina?
Io direi che il karate si innesca nel soggetto diventando una modalità per sopportare il bel “peso della vita”, per staccare dalla routine, per trovare e/o meglio vivere l’equilibrio che, dai movimenti fisici e attraverso un graduale lavoro, giunge a creare movimenti interiori, ottenendo il “conosciuto” equilibrio psicofisico (senza trascurare il personale livello d’integrazione tra le proprie capacità e le abilità che la pratica porta ad acquisire).
Il karate si innesca nel soggetto diventando una modalità per sopportare il bel “peso della vita”.
Questo passaggio/percorso diventa un viaggio verso la fragilità umana, nella sua accezione positiva, intesa come capacità, come possibilità di ottimizzare la comprensione dei propri modi di esserci e relazionarsi al mondo esterno.
Tale fragilità può essere intesa, dunque, nell’ottica di una maggiore apertura verso le risorse, anche psichiche, che l’individuo mette in gioco per ottenere il miglior adattamento possibile lungo il percorso che riabilita verso una nuova visione di se stesso.
L’arte marziale risulta essere il miglior adattamento alle sopravvenute difficoltà soggettive, per cui dobbiamo considerare che la perseveranza da parte del karateka risiede anche nel supporto funzionale insito nella pratica stessa del Karate-do: quante volte è capitato a noi praticanti di capire profondamente quale fosse il nostro reale stato d’animo, se non proprio durante un allenamento!
È da sottolineare poi il ruolo strategico che svolge la funzione motivazionale, che cammina di pari passo con le fasi di maturazione nella pratica del Do, motivazioni che diventeranno sempre più adattive: un obiettivo troppo livellato verso il basso demotiverà il soggetto e lo renderà non empowered rispetto alla sua difficoltà, viceversa un obiettivo troppo elevato porterà a frustrazioni che chiuderanno eventuali prospettive di crescita.
L’intervento della disciplina diventa, dunque, sempre più adeguato allo sviluppo della persona, puntando ai bisogni, ai modi di pensare e di rapportarsi a se stessi e al mondo circostante in maniera naturale.
La cura del bambino non può prescindere dalla cura del sistema famiglia.
Ogni soggetto ha condizioni psicologiche cognitive differenti, elementi che andranno tenuti in considerazione per orientare il percorso.
Qualora parlassimo di un adulto che inizia a praticare, il livello di ciclo di vita incide enormemente sulla possibilità di scelta, è altresì fondamentale enfatizzare che, seppur le ragioni d’inizio cambiano da individuo a individuo, tale decisione (a volte inconsapevole) avrà un’incidenza sui meccanismi appresi in precedenza e su quelli da acquisire, parificandosi alla nuova opportunità di conoscersi come se esso stesso si guardasse allo specchio.
La scelta di intraprendere un percorso di formazione lungo come quello del karate rappresenta un grosso investimento personale, professionale ed economico: è un processo di scelta contornato da aspettative e illusioni, ma anche da fascino verso qualcosa che inizialmente ha il sapore del “misterioso”.
L’allievo si scontra già nelle fasi iniziali del proprio training con la necessità di prendere consapevolezza di essere “messo in discussione” da se stesso e dagli altri, in un lungo viaggio che scorre su binari non sempre paralleli, non sempre dritti e, anzi, che spesso si incroceranno tra difficoltà e soddisfazioni.
Il caso cambia nei confronti di un bambino in quanto nella storia e nel ciclo di vita dietro un bambino che sceglie di praticare karate c’è una famiglia che in punta di piedi entra nel dojo, priva di qualsiasi conoscenza sia del contesto, sia del maestro al quale affida suo figlio per iniziare questa disciplina. La cura del bambino non può prescindere dalla cura del sistema famiglia, la quale porta con sé il proprio modo di saper essere e di saper fare, un modo che non può essere trascurato da colui al quale implicitamente viene richiesto, oltre il funzionamento di questa attività, anche affetto, accudimento e gestione di limiti e risorse presenti nel piccolo praticante.
Appare evidente, quindi, come anche la scelta del dojo, del maestro, del karate… non coinvolga solo due persone, bensì la complessa trama di rapporti affettivi (genitore-figli, coppia genitoriale, relazione tra i compagni di allenamento ecc.) che diventano il motore portante e il frutto di tutte le variabili intra ed extra individuali.
Il Karate Do è, dunque, via di conoscenza di se stessi e del proprio modo di affrontare/superare le difficoltà…
Il karateka attraverso l’auto-osservazione durante la pratica, valuta momento per momento il proprio agire, la propria dinamica corporea, il proprio equilibrio esterno e interno, esplora se stesso: l’auto-osservazione diviene riflessività.
Il Karate Do è, dunque, via di conoscenza di se stessi e del proprio modo di affrontare e di superare le difficoltà della vita e, ancora di più, se opportunamente utilizzato, supporto funzionale di un eventuale percorso psicoterapeutico.