Incontro con il monaco buddista M° Mitsutaka Koso. Salsomaggiore (PR) – 29.03.19
Traduzione M° Shuhei Matsuyama e Michele Gambolò
Saluto tutti, sono molto contento di rivedervi e ringrazio tutti per l’invito a essere con voi oggi. Ringrazio anche il Maestro Shirai, perché questo incontro nasce dal legame, suo e mio, con il Maestro Kase che sempre ricordo. Lo scorso ottobre [2018 N.d.R.] è mancata all’età di 91 anni la signora Chieko, moglie del Maestro Kase. Lei era una bravissima persona e ogni volta prima di venire da voi in Italia passavo a salutarla.
In Sanscrito immergersi si traduce come concentrare la pratica.
Questa volta parliamo di praticare e approfondire la pratica. Per ricondurmi a quanto detto la volta precedente, si tratta di praticare l’insegnamento del Maestro.
L’arte marziale fonda il suo comportamento e i suoi principi nei pensieri del Buddhismo, del Confucianesimo, dello Shintoismo e di altre filosofie dell’area orientale. Mi auguro che queste mie riflessioni di oggi possano aiutarvi nell’approfondimento della vostra pratica.
Ritorniamo al motto scelto dalla vostra Federazione per identificare la pratica: karate no shugyo wa issho de aru e al dojo kun. A completamento di questi riferimenti c’è anche il principio importantissimo di shin-gi-tai.
Il karate-do della FIKTA è basato sulla ricerca della formazione della persona e voi siete persone che hanno scelto la pratica di questa via per arrivare all’obiettivo. Essendo dei praticanti bisogna ogni volta riflettere sul significato di questi principi.
Praticare l’insegnamento significa praticare il suggerimento del Maestro, questo è il primo approccio. Che cosa significa? Che quello che propone Maestro deve essere approfondito.
Poi si passa al livello di gyozuru, ovvero praticare approfondendo il proprio pensiero attraverso il kokoro, si comincia a riflettere su come il proprio pensiero sia collegato con il mondo circostante, con la natura.
Che cosa significa Buddha? Significa che ho capito, che sono arrivato a uno stato del mio pensiero per cui tutto mi è chiaro. Normalmente diciamo di avere capito, ma se esaminiamo da diversi punti di vista lo stesso argomento possiamo capire in una maniera più approfondita e globale.
Nel momento in cui parliamo di gyozuru, “praticare la pratica”, s’intende immergersi profondamente nello stato della pratica. In Sanscrito immergersi si traduce come concentrare la pratica.
Nell’esperienza della pratica all’inizio entrano dei “disturbi”, come i pensieri mondani o pensieri riferiti al proprio ego, ma per approfondire (immergersi) bisogna abbandonare queste interferenze e concentrarsi solo sull’obiettivo della pratica. Si arriva così a un punto dove ci si rende conto, quasi per caso, che il proprio pensiero ha subito un cambio radicale.
Potremmo misurare la tecnica di un pugno del Maestro Shirai, non possiamo invece capire in che modo riesce a raggiungere tanta efficienza.
Vorrei portarvi un esempio su quanto detto.
Un discepolo di Buddha di nome Cuda Pantaka, considerato come il settimo discepolo, aveva un fratello maggiore anch’esso discepolo e molto intelligente. Purtroppo, lui non aveva una grande mente, arrivava addirittura a dimenticare il proprio nome e quando cercava di trasferire l’insegnamento di Buddha spesso dimenticava delle parti. Per questo motivo si disperava della propria ignoranza, fino al punto di pensare di non essere adatto a seguire Buddha: “Mi piacciono veramente tanto le parole di Buddha, ma non riesco a trasferirle a nessuno. Come posso fare?” A un certo punto pensò anche di lasciare il suo maestro e di tornare a casa.
Un giorno, seduto davanti all’ingresso del tempio, era veramente demoralizzato. Buddha lo avvicinò e gli chiese: “Cosa ti succede Cuda Pantaka?”. “In verità, non mi ricordo quello che Lei dice e, al confronto con altri miei colleghi, mi rendo conto di essere inadeguato. Per questo motivo ho deciso di abbandonare la pratica”. Buddha rispose: “Tu non sei ignorante, perché una persona che lo è veramente non sa nemmeno di esserlo, non se ne rende conto e, quindi, non è consapevole”.
Allora, Buddha gli suggerì, porgendogli una scopa, di fare le pulizie del tempio. “Mentre pulisci devi dire alla scopa di togliere la polvere e di fare volare lo sporco”.
Cuda Pantaka cominciò ad applicare giornalmente questa pratica e, per tanti anni, ogni giorno si dedicò alle pulizie del tempio.
Un giorno, alla fine delle pulizie, si levò un forte vento che portò all’interno del tempio tanta polvere e tanto sporco. Cuda Pantaka pensò che era un peccato, perché aveva appena terminato il proprio lavoro, svolto come sempre con estrema precisione. Per un attimo si rese conto che aveva appena avuto una riflessione compiuta, corse subito da Buddha per riferirgli cosa avesse pensato. Buddha rispose: “È proprio così, hai capito bene! È il pensiero di voler divorare tutto lo sporco che è negativo non la polvere stessa”.
Per esempio, la rabbia non è un pensiero “pulito” e nemmeno lamentarsi lo è. La polvere o lo sporco non sono il problema, è il pensiero negativo che si forma dentro di noi che ci si ripercuote contro.
Buddha ha indicato di fare la pratica per arrivare a pulire il pensiero.
Ad esempio, nel karate un tempo si studiava un kata tutta la vita. Storicamente ogni persona praticava un kata che rispecchiava la sua vita, il suo pensiero. Praticare il kata significa avvicinarsi a capire il pensiero di una persona.
Anche nel racconto della Tecnica Miracolosa del Gatto il gatto maestro risponde a un giovane gatto che gli dice: “Io sono nato per catturare i topi. Ho praticato tutta la vita la tecnica per catturare i topi, ma oggi ho incontrato questo ratto contro il quale non ho potuto fare nulla” e il gatto maestro gli risponde: “Tutto l’insegnamento viene trasmesso attraverso la pratica della tecnica nel kata. Noi cominciamo ad apprendere in questo modo”.
Al giorno d’oggi cerchiamo di spiegare i fatti, gli eventi attraverso numeri (dati), però è difficile quantificare il nostro pensiero, il nostro cuore, la nostra vita. Per esempio, potremmo misurare la tecnica di un pugno del Maestro Shirai, non possiamo invece capire in che modo riesce a raggiungere tanta efficienza.
Noi tutti facciamo lo stesso kata, ma ognuno lo interpreta a suo modo, questa differenza ritengo sia molto bella. Credo che attraverso i kata si possa formare la personalità del singolo individuo.
La pratica di una Via vuol dire continuare costantemente.
Vi parlo ora di un monaco buddhista, poeta e calligrafo Ryōkan Taigu (Echigo 1758 – 1831) il cui nome significa buono, generoso e grande scemo (più o meno come il personaggio di cui vi ho parlato poco fa).
Un giorno arrivò da lui una ragazza domandando: “La pratica del buddhismo è una cosa difficile e dura?”, mentre palleggiava con una racchetta e una pallina tipo ping-pong. Il monaco rispose: “La pratica è come contare i palleggi del tuo gioco fino a dieci. Uno, due, tre, quattro… dieci, poi ricomincia. La pratica di una Via vuol dire continuare costantemente. Il praticante deve continuare per arrivare al suo obiettivo. Durante la pratica si formerà il carattere”.
Quando si entra nel dojo non basta essere pronti, ma si deve essere consapevoli che con quella pratica si approfondisce il proprio obiettivo. Voi siete praticanti di karate-do. Sono contento di poter esporre davanti a voi il mio pensiero e poter andare avanti insieme nella pratica. L’importante è purificarsi all’interno. Mi auguro di migliorare ancora andando avanti.
Grazie per questo incontro.
Gassho, M° Mitsutaka Koso.