La vera natura del karate è “yuiitsu muni” ossia “una cosa sola”, al di là di nomi, di idee, di tecniche.
Da qualche anno pratico lo Shodo, la Via della Calligrafia, e lo scorso inverno mi sono recato a Osaka per sottopormi all’esame per ricevere la prima licenza d’insegnamento. Così, dietro sprone del mio Sensei, il 25 e 26 del mese di maggio 2019 ho organizzato la mia prima esposizione presso la Piccola Galleria Comunale di Pesaro, città dove vivo.
Devo dire che non è stato facile organizzare questa esposizione in così poco tempo: trovare una data adeguata in cui la location fosse libera, stabilire i contatti affinché l’evento venisse promosso adeguatamente, realizzare locandine e inviti… ma, soprattutto, la difficoltà iniziale maggiore è stata quella di avere le idee chiare su cosa esporre e portarlo a termine in tempi ristretti, dato che rientrato dal Giappone non avevo molti mesi a disposizione.
… mi accorgevo altresì di quanto i significati di quelle istruzioni zen fossero vicini anche alla pratica del karate.
Per capire cosa potessi proporre ai visitatori che mi rendesse soddisfatto, che avesse il doppio fine di far comprendere cosa sia lo shodo e quanto meraviglioso e utile possa essere il suo studio, mi sono fatto aiutare da un bellissimo libro scritto dal Prof. Shozo Sato, in cui viene spiegato il binomio calligrafia – zen, e nessuna idea sarebbe potuta cadere più a pennello di questa! Sì perché, considerando che a Pesaro non era mai stata realizzata un’esposizione di shodo, la mia intenzione era quella di enfatizzarne, davanti agli occhi del visitatore, principalmente il valore educativo dal punto di vista introspettivo, anziché enunciarne gli aspetti puramente tecnici o soffermarmi solamente sulla sua bellezza come forma d’arte, così da fare comprendere quanto possa essere stupenda e utile la sua pratica, dato che da un punto di vista esclusivamente artistico lo shodo è ben lontano dai nostri classici canoni e quindi il suo apprezzamento di primo acchito potrebbe risultare difficoltoso.
Ho immaginato che, così facendo, avrei permesso di capire meglio il legame che sussiste tra la sua pratica come “disciplina interiore” e il relativo risvolto artistico, il senso di realizzare una calligrafia, i suoi tratti d’inchiostro.
Ho organizzato immediatamente le idee per mettermi rapidamente al lavoro; ho deciso di realizzare quindici opere, tra calligrafie propriamente dette e sumi-e, cioè dipinti a inchiostro. Il numero di opere apparirebbe esiguo e il mio timore iniziale era proprio che la sala d’esposizione potesse sembrare “troppo scarna”, ma in realtà sin da subito avevo in mente l’idea di dare proprio la sensazione del “vuoto” al visitatore, sin dal suo ingresso in sala.
Il vuoto, quel concetto che, se vogliamo, risiede alla base della stessa pratica zen, doveva coinvolgere i sensi del visitatore che si apprestava ad ammirare le opere e ogni opera doveva risultare contemporaneamente una tassello di un percorso e una realtà a sé stante, tutto grazie alla vacuità che l’ambiente, povero di quadri e privo di altri elementi, lineare e bianco, permetteva.
Ho creato, infatti, un percorso ideale che dalla prima alla quindicesima opera facesse capire, attraverso delle didascalie numerate e affisse accanto a ogni lavoro, il legame che c’è tra shodo e zen.
Per creare le opere ho seguito proprio il percorso tracciato e questo mi è risultato estremamente utile anche per studiare e comprendere meglio alcune caratteristiche della pratica zen, alcuni suoi dettami, insegnamenti caratteristici, la sua filosofia di base, perché ogni volta che dovevo realizzare una calligrafia in primis facevo una breve ricerca sul significato che quella frase o quel dettame che volevo trascrivere avesse dal punto di vista della filosofia zen stessa.
Andando avanti mi accorgevo altresì di quanto i significati di quelle istruzioni zen fossero vicini anche alla pratica del karate, sia dal punto di vista tecnico, sia dal punto di vista di quella filosofia insita nella nostra arte marziale, filosofia che tutti noi seguiamo ogni giorno, a volte anche inconsapevolmente. In particolar modo, la seconda parte del percorso che avevo ideato racchiudeva un legame forte con la pratica del karate, in quanto i messaggi che nello specifico le ultime quattro calligrafie esprimevano sono concetti, a mio avviso, essenziali per realizzarsi nella Via della mano vuota così come lo sono nella Via della calligrafia.
Una di queste calligrafie è SENSHIN, ossia “Purificare la mente”. Quest’asserzione indica che bisogna togliere lo sporco, la polvere, che si identifica nei desideri e nelle immaginazioni confuse, dalla mente e dall’animo, attraverso un’attività abituale. Questa pratica, che impegna saggezza e intelletto, richiede molta umiltà e disciplina fisica e mentale. Quando il nostro spirito sarà schiarito, noi saremo purificati e tutto muterà nella tranquillità! Senshin è un concetto che sta alla base della filosofia Zen; visitare un tempio zen, ad esempio, richiede il rituale di lavarsi bocca e mani prima di varcarne la soglia, al fine di cominciare il processo di purificazione. La pratica del Senshin diviene un forma meditativa quotidiana vera e propria.
Se non si purifica la mente, durante l’apprendimento del karate si rischia di inaridirsi interiormente, si rischia di diventare succubi del proprio miglioramento, fino a trasformare il “sano fanatismo” che ci spinge ad allenarci, in una presunzione strutturata che ci rende vanagloriosi e ciò si ritorce contro il miglioramento stesso, dunque, si crea un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.
La parola d’ordine è umiltà: bisogna unire la disciplina fisica a quella mentale, quotidianamente, allenarsi con lo scopo di apportare del bene a se stessi, ma di conseguenza a chi interagisce con noi nella vita di tutti i giorni. Riuscendo a fare ciò la nostra tecnica sarà sempre più limpida, raffinata, ed essa si rifletterà sullo status mentale.
Se non si purifica la mente, durante l’apprendimento del karate si rischia di inaridirsi interiormente.
La terzultima calligrafia che ho trovato molto vicina ai dettami del karate-do è costituita da quattro caratteri che sono WA KEI SEI JAKU e significano rispettivamente “Armonia, Rispetto, Purezza, Tranquillità”. Essi sono i quattro concetti del Buddhismo Zen, ma anche la base del Chado, la Cerimonia del tè.
I primi due principi indicano che quando è presente il rispetto tra due persone, o tra l’uomo e la natura, nasce l’armonia; gli altri due principi indicano che purificando lo spirito e il corpo si raggiunge la tranquillità e qualsiasi delusione interiore scompare. Tali principi devono sfociare nella e dalla meditazione costante, far nascere la consapevolezza della transitorietà del mondo, e sviluppare la sensibilità estetica verso la bellezza imperfetta e impermanente di ogni cosa.
Questi insegnamenti rafforzano in qualche modo il concetto precedente di Senshin e credo siano molto vicini alle idee della Via del karate. Se volessimo sorvolare su un aspetto puramente tecnico, già solo il termine WA racchiude in sé uno dei pilastri della pratica delle aiki-waza, tecniche tipiche, ovviamente, dell’Aikido, ma anche presenti in discipline più antiche, come il suo progenitore Aikijujutsu, e in quella parte del vocabolario tecnico del karate classico di Okinawa che prende il nome di tuite, cioè le tecniche di lussazione e sottomissione tipiche.
Ritornando, però, alla nostra riflessione più filosofica, questi quattro concetti rientrano nello studio del karate nel momento in cui esso deve diventare una disciplina educativa che vada a istruire i praticanti giovani; è necessario che karate ed educazione al rispetto, nel senso più lato, diventino un binomio inseparabile, sempre per il motivo dettato dal concetto precedente di Senshin, e per poter ancor più realizzare la purezza di spirito e la tranquillità interiore, che favoriscono una piattaforma mentale stabile per l’individuo.
Man mano che si avanza nella pratica dello shodo, come del karate, si comprende sempre più il significato che la penultima opera che ho realizzato esprime, ossia ICHI SOKU ISSAI che significa “Uno è tutto”. Questo principio, probabilmente risalente a Sengcan (3° Patriarca dello Zen), è alla base degli insegnamenti dei monaci zen, ma anche all’apice della loro realizzazione.
La pratica zen suggerisce di fare un profondo respiro e calmare il proprio animo, i propri sensi, dopodiché sottoporsi a una profonda introspezione per tornare alla base di tutto. La dichiarazione è un’affermazione apparentemente senza significato che racchiude in sé, in realtà, il senso dell’esistenza di un’unica verità, che dev’essere trovata dopo essersi impegnati nella meditazione, in una contemplazione interiore dell’essere e del mondo.
Dopo aver fatto questo ed essersi resi conto che qualsiasi cosa esiste dentro di noi, la dottrina della vacuità prende consistenza, l’uno diviene tutto e il tutto ritorna a essere l’uno e con esso si realizza la completezza della propria mente.
Proprio come quando pratichiamo il mokuso a fine keiko, bisogna chiudersi in se stessi per realizzare quanto abbiamo prodotto in allenamento; attraverso un’analisi mentale di quanto abbiamo studiato e ripetuto decine di volte in quella seduta di addestramento, concretizziamo quale sia il fine ultimo di quelle tecniche, di quei concetti sviscerati sudando, e torniamo alla base della pratica stessa. Rinnovare ogni volta questo esercizio ci permette di giungere sempre più vicini alla vera natura del karate che, come dicono i miei Sensei, è yuiitsu muni ossia “una cosa sola”, al di là di nomi, di decine di idee, di centinaia di tecniche, perché esso deve insegnare sì la difesa personale, deve istruire sì i giovani a una vita sana tramite lo sport e tutto ciò può farlo attraverso varie metodologie, ma deve soprattutto fornire una guida per il miglioramento interiore e la crescita morale dell’individuo e ciò dev’essere legge comune a qualsiasi dojo.
L’opera con cui ho chiuso il percorso della mia esposizione e che va a completare il messaggio del lavoro precedente, è stata la calligrafia di MU, che significa “Nulla”. Per molti maestri zen l’ideogramma Mu rappresenta l’espressione fondamentale della loro filosofia. Mu, il Nulla, è l’elemento primo e ultimo, il cuore dello zen, la cristallizzazione di tutti gli insegnamenti, il fine della realizzazione e l’essenza di ogni cosa… in esso non deve più esistere, a un certo puto, il dualismo. Da esso nasce tutto e a esso bisogna giungere in ogni stato meditativo. La persona che viene assorbita completamente da esso e ne comprende il senso, mettendolo in pratica, è una persona illuminata!
Quando pratichiamo il karate, lo studiamo per anni, ci alleniamo tutti i giorni addestrando centinaia di principi e sviscerando decine di kata, dobbiamo avere in mente in realtà un unico obiettivo: esso può essere il realizzare la tecnica precisa, dal tempismo perfetto, dall’esplosività assoluta, che ci permette di raggiungere quel punto e quella vittoria in competizione, oppure può essere il trovare quella tecnica ideale, potente ed essenziale che ci permette di difenderci da un’aggressione riportando il minor danno possibile alla nostra incolumità. Mantenere quest’obiettivo sempre presente davanti a noi fa sì che da una complessità di situazioni tecniche, di studi e pratiche si arrivi alla paradossale semplicità d’azione, quell’atto unico che racchiude l’essenza di tutto ciò che abbiamo appreso, quel movimento che realizza in un solo secondo la vera natura della nostra pratica. Quel gesto tanto agognato, ricercato, studiato, non è altro ciò che si costruisce dentro di noi giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento, e solo raggiungendo il vuoto mentale lo si potrà vedere, solo dopo aver spazzato via tutto il superfluo lo si potrà realizzare.
Tali principi devono sfociare nella e dalla meditazione costante.
Quel gesto è forse la stessa “mano vuota” con cui abbiamo iniziato la nostra pratica molti anni prima? Forse la tecnica ideale è “semplicemente” quel pugno che abbiamo appreso per primo? Unicamente lo studio e la disciplina costante nello shodo, così come nel karate, possono dare le risposte alla pratica stessa.
Portando a termine la mia prima esposizione di calligrafia ho avuto un’ennesima conferma di tutto ciò, ho altresì capito quante analogie ci siano tra le due Arti. Il famoso concetto di Bunbu Ryodo ci insegna quanto sia difficile creare un equilibrio tra mente e corpo, ma esso è il goal finale di ogni pratica, di ogni Do, per cui ho compreso che, in fondo, anche nel karate vi si può trovare un pizzico di zen, dando vita così alla doppia Via della penna e… del pugno.